Haiti, l’isola che non c’è (in tv)
A 7 anni dal sisma la piccola isola caraibica di Haiti sta ancora facendo i conti con una drammatica crisi umanitaria, aggravata dall’uragano Matthew che vi si è abbattuto solo pochi mesi fa. Tv e giornali, però, sembrano aver perso interesse. La testimonianza di Entela Sula, Head Mission dell’organizzazione umanitaria Cesvi sull’isola
di Mattia Bagnato
su Twitter @bagnato_mattia
C’è un’isola lontana, proprio lì, nel bel mezzo del mar dei Caraibi. Una piccola terra tormentata, che nel corso della storia ha saputo ribellarsi alla colonizzazione francese prima, nordamericana poi. Un Paese che ha saputo spezzare per prima le catene della schiavitù, diventando la patria per eccellenza di uomini liberi e orgogliosi. Questa terra ormai non esiste, quasi, più. Piegata, ma non distrutta, da un sisma devastante che il 12 gennaio 2010 ha causato la morte di 220.000 persone e 3 milioni di sfollati. Una scia di morte e devastazione senza pari. Non c’è pace per Haiti. Quando, infatti, sembrava che le cose stessero migliorando, la notte del 3 ottobre scorso, un violento uragano si è abbattuto sull’isola.
Paura e disperazione sono, di nuovo, piombate sui suoi abitanti: 900 vittime e 300.000 senza tetto, che si aggiungono a quanti avevano già subito le conseguenze del terremoto di 7 anni fa. Il risultato, una crisi umanitaria ancora drammaticamente preoccupante. Evidenziata da gravi problemi igienico-sanitari, difficoltà nella reperibilità di cibo, acqua potabile e medicinali. Una condizione a cui il Cesvi sta cercando di porre rimedio. Rimane ancora molto da fare. Così, in occasione del anniversario del terremoto abbiamo deciso di tenere alta l’attenzione. Per fare questo, ci siamo valsi della testimonianza di Entela Sula, Head mission ad Haiti per l’organizzazione umanitaria Cesvi.
Dott.sa Sula, qual è la situazione igienico-sanitaria a 7 anni dal sisma che ha sconvolto Haiti?
La situazione ad Haiti rimane ancora precaria. Soprattutto, però, le maggiori problematicità si riscontrano nelle zone recentemente interessante dall’uragano Matthew. Ad oggi, infatti, solo il 50% della popolazione ha accesso all’acqua potabile, mentre per tutti gli altri rimane un lusso, in particolar modo per coloro che vivo nelle zone rurali dell’isola. Il Cesvi sta lavorando in questo senso grazie ai fondi messi a disposizione dalla Commissione Europea, attraverso l’Ufficio Umanitario per Haiti (ECHO). Nello specifico, la nostra organizzazione si sta impegnando nella trivellazione di nuovi pozzi, nella riparazione di quelli già esistenti ma non funzionanti e nella purificazione dell’acqua. L’obiettivo, è quello di garantire un regolare ed esteso accesso alle risorse idriche, scongiurando l’eventualità di nuovi focolai di colera.
È stato possibile rimettere in moto un sistema medico-ospedaliero pesantemente colpito da queste due rovinose calamità naturali?
Bisogna necessariamente premettere che il sistema ospedaliero (strutture sanitarie e personale medico) ad Haiti non è mai stato ai livelli degli standard internazionali. Le problematicità, infatti, sono state sempre molte. L’intervento della Commissione Europea, in seguito al sisma del 2010, ha permesso di portare il sistema sanitario a livelli accettabili. Gli sforzi fatti in questi anni, hanno consentito almeno nelle zone urbane un miglioramento delle strutture e delle prestazioni. L’uragano Matthew e la sua forza distruttrice, però, hanno finito per compromettere irreparabilmente le strutture sanitarie nelle zone colpite. Con la conseguenza, che parte della popolazione si sta muovendo verso le città nella speranza di poter usufruire di servizi migliori.
Possiamo dire che la precedente epidemia di colera sia stata, definitivamente, scongiurata o diversamente rimane ancora un problema? Quali sono state le cause scatenanti l’epidemia?
A 7 anni dal sisma, il colera rimane ancora un problema endemico in diverse zone del paese, con continui e periodici ritorni di fiamma. Ovviamente, l’inquinamento dell’acqua e le precarie condizioni igieniche sono condizioni “ideali” per la diffusione di questa specifica infezione. Il ceppo originario di colera, è stato portato ad Haiti dal contingente nepalese delle Nazioni Unite. Questo ormai non è più un segreto, visto che anche il Segretario Generale Ban Ki-Moon (in carica fino allo scorso 31 dicembre, ndr) ha accettato il fatto stanziando fondi per risarcire le famiglie danneggiate.
Qual è la situazione sull’isola a seguito all’uragano Matthew e quali sono state le zone maggiormente interessante dall’evento naturale?
Le zone maggiormente colpite sono state quelle del sud-ovest del Paese. Cesvi era presente in queste aeree già prima del 2009, con interventi volti a contrastare la siccità. Va detto, comunque, che questa parte del paese aveva una situazione precaria già prima dell’uragano. Ciò nonostante, i danni causati dall’uragano sono stati altissimi: su una popolazione di circa 2 milioni, ad oggi, si registrano circa 800 morti e più di 800 mila le persone interessante. 660 mila delle quali hanno, urgente, bisogno di assistenza. Circa 88 mila case sono state danneggiate, mentre sono 30 mila le abitazioni completamente distrutte. Le scuole danneggiate sono 352, 142 quelle ancora agibili e attualmente occupate dagli sfollati. Ciò ha provocato un ritardo nel regolare svolgimento delle attività scolastiche. Inoltre, tutti i raccolti e le piantagioni, quei pochi che c’erano, sono stati distrutti. Il suolo ha una saturazione del 100% ancora oggi: questo significa che anche una minima quantità di precipitazioni può provocare un’inondazioni.
Quali sono, secondo lei, le priorità in questo specifico momento?
Ad oggi, le priorità rimangono gli alloggi, l’accesso all’acqua potabile, le scuole e la sicurezza alimentare. Quest’ultima, a parer mio, va di pari passo con il rilancio dell’agricoltura, tenendo conto del fatto che l’economia di Haiti si basa, principalmente sull’agricoltura.
A proposito dei fondi stanziati della cooperazione internazionale: come crede siano stati impiegati? Secondo lei, si sono rivelati utili alla ricostruzione post-sisma e a scongiurare ulteriori crisi sanitarie?
Dopo il terremoto Haiti ha ricevuto un fiume di soldi. L’impegno si è rivelato grande, ma la mancanza di pianificazione e coordinamento da parte del Governo ha reso tutto ancora più complicato. I bisogni erano tanti e il governo praticamente assente. Infatti, grandi investimenti sono stati fatti anche nel senso di rafforzare e snellire la struttura statale e locale. In altre parole, si è partiti praticamente da zero. L’utilità dei fondi stanziati per Haiti è indiscutibile a mio avviso, perché senza questi fondi Haiti adesso sarebbe, se possibile, in una situazione ancora peggiore. Ovviamente, rimane ancora molto lavoro da fare dal punto di vista della prevenzione dei disastri naturali. Un problema a cui Haiti è particolarmente esposta. Dopo l’uragano, abbiamo constatato una presenza maggiore da parte dello Stato e i fondi sono stati meglio canalizzati e resi più efficaci.
Quanti sono i campi profughi ancora presenti sull’isola e com’è la situazione a loro interno?
La maggior parte dei campi profughi sono stati rimossi e la popolazione reinserita nei quartieri di provenienza. Ciò nonostante, ci sono ancora dei piccoli accampamenti sparsi qua e là. Con l’uragano, infatti, buona parte della popolazione interessata si è mossa verso l’interno del Paese, attorno alle zone che offrono più servizi (come l’acqua potabile). Creando così, nuovi piccoli accampamenti che avranno ulteriormente bisogno di assistenza.
Si sono da poco svolte le elezioni parlamentari che hanno visto il successo dell’imprenditore Jovenel Moise. Come si presenta l’attuale situazione politico-sociale?
Al contrario di quanto si pensava, sfidando tutti i trend del passato, la popolazione è rimasta calma ed ha accettato di buon grado i risultati elettorali. Comunque, la situazione rimane tesa perché ci si attende che le proteste possano scoppiare da un momento all’altro, come solitamente accade ad Haiti. Almeno fino al 7 febbraio, data in cui il nuovo Presidente riceverà ufficialmente l’investitura.
Amnesty International ha da poco redatto un documento intitolato: “15 minuti per andarsene”. Nel rapporto si parla di “spostamenti forzati” della popolazione.
Il processo di reinserimento della popolazione sfollata nei quartieri di origine non è stato facile. Spesso, ci siamo trovati di fronte molta resistenza da parte di coloro che non voleva ritornare nei rispettivi quartieri di residenza. Avevano paura di perdere l’aiuto umanitario offerto dai vari soggetti in campo. A questo proposito, il Governo ha usato il pugno duro ed ha obbligato le persone a fare ritorno ai loro vecchi quartieri. L’obiettivo ufficiale del Governo era quello di scongiurare la permanenza di tendopoli e campi profughi. Ovviamente, le organizzazioni umanitarie non sempre sono state d’accordo con questo atteggiamento del Governo. Continuando ad assistere coloro che vivono nelle tendopoli, che altrimenti sarebbero stati abbandonati a se stessi.
Generalmente, in casi come questo il prezzo più alto lo pagano i bambini. Com’è la situazione dell’infanzia sull’isola dopo questi due devastanti eventi naturali?
Ovviamente, in situazioni così drammatiche i più esposti sono proprio i bambini. Al di là dell’accesso all’istruzione, che era una tutt’altro che agevole anche prima, oggi c’è un numero altissimo di bambini orfani. Gli ospedali pediatrici sono inesistenti, molte ONG comunque sono impegnate nel supporto psicologico ai più piccoli. Anche CESVI è impegnato in questo senso, ospitando circa 300 bambini in una scuola/centro diurno situato in uno dei quartieri più difficili e malfamati della capitale.