La guerra di Piero, e di tutti gli altri, sul fine vita

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A dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby, in Italia manca ancora una legge sul fine vita. Un vuoto legislativo, prodotto dell’immobilismo politico. Incapace di recepire le istanze dei cittadini. Abbiamo intervistato Mina Welby, moglie di Piergiorgio, ripercorrendo questi lunghi anni

Piergiorgio Welby

Piergiorgio Welby

Piergiorgio Welby amava la vita. L’amava così tanto, da non poter sopportare di trascorrerla attaccato ad un respirato artificiale. A raccontarlo è Mina, sua moglie, in un’intervista rilasciata a Ghigliottina.it lo scorso 20 dicembre durante la commemorazione organizzata alla Camera dei Deputati dall’Associazione Luca Coscioni.

Come lui, sono migliaia gli italiani costretti su un letto d’ospedale da un male incurabile. Tutti accomunati dalla stessa voglia di vivere, ma con dignità. Per questo, Marco Cappato e ALC si battono da anni contro quello che in gergo viene chiamato accanimento terapeutico. Ma soprattutto, perché, venga rispettata la volontà del paziente.

Era stanco Piergiorgio. Stanco di trattamenti invasivi e dolorosi. Stanco di tutti quei tubi dentro allo stomaco e nei polmoni. Aveva deciso, nel pieno delle sue capacità mentali, di far ricorso all’eutanasia. Lo disse alla moglie Mina che, superato il primo momento di sconforto, prese il telefono e chiamò l’On. Cappato.

Non aveva idea, Piergiorgio, di quello che la sua decisione avrebbe provocato in seguito. Quella scelta, dice ancora sua moglie, diversamente da ciò si può essere portati a pensare, fu un vero e proprio gesto d’altruismo. Un segno d’amore rivolto ai tanti malati terminali, che ancora oggi aspettano che il Parlamento si decida ad approvare una legge sul fine vita.

Quando il dott. Riccio[1] spense il respiratore, dopo averlo sedato, quella legge non era ancora arrivata. Si aprì, però, un inedito dibattito sul tema dell’eutanasia, capace di rompere il silenzio e svegliare le conoscenze di molti. Anche grazie a quel forum, che presto diventò la sua bocca e le sue orecchie. L’ultimo espediente per far sentire la sua voce, ormai soffocata dalla malattia, al quale nel 2005 seguì un libro.

Una sorta di “biotestamento”, nel quale Piergiorgio cercava di spiegare le ragioni della sua lotta. Quella per la libertà di scegliere come porre fine alla propria esistenza: “Vorrei che i sogni perduti o abbandonati al mattino vicino al dentifricio, o quelli traditi per vigliaccheria o per calcolo cinico o per timore degli altri, ritrovassero la strada e rimanessero al mio fianco per farmi compagnia. E vorrei morire all’alba insieme a loro”.

Sono passati 10 anni dalla morte di Welby. Ciò che preoccupa di più è, ancora una volta, il silenzio della politica. Un immobilismo, che lascia sgomenti. Figlio, secondo Emma Bonino, di un dibattito falsato dalle mille steccati ideologici. Ostacoli artificiosi e, a tratti, incomprensibili per chi si sente completamente abbandonato.

Qualcosa, però, sembra iniziare a muoversi. Lo scorso 7 dicembre, infatti, la Commissione Affari Sociali ha approvato il primo Testo base[2] sul testamento biologico. La luce in fondo al tunnel, come l’hanno definita alcuni. Un gesto dovuto, secondo altri, al quale ha fatto eco la nascita di un gruppo interparlamentare formato da diversi soggetti politici.

Piergiorgio Welby non è stato il solo a scontrarsi con lagune le legislative di questo Paese. Molti, dopo di lui, hanno visto la loro volontà infrangersi contro il muro dell’indifferenza politica. Walter Pilidu, giusto per citarne uno, ha dovuto attendere una sentenza del Tribunale di Cagliari per poter “riposare in pace”.

Il giudice, si legge nella sentenza, conscio dell’impossibilità di fare riferimento ad altre leggi, ha ritenuto opportuno fare appello alla Costituzione italiana (artt. 13 e 32) e alla Convenzione di Oviedo. Così, come nel caso della giovane Eluana Englaro, ancora una volta la giurisprudenza ha dovuto mettere una toppa alle mancanze altrui.

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 11-09-2014 Roma Walk around a Piazza Montecitorio per l'eutanasia con Mina Welby Nella foto Mina Welby Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 11-09-2014 Roma Walk around in Piazza Montecitorio for euthanasia with Mina Welby In the photo Mina Welby

Mina Welby

Serve una legge e serve adesso, ha ribadito Emma Bonino alla Camera: “Serve perché queste cose non possono dipendere dalla sensibilità del medico”. Gli stessi dottori, accusati di sottoporre i pazienti a trattamenti che non ritengono più sopportabili.

Ad affermarlo è proprio un medico, il dott. Mauro Sabelli per la precisione. Primario all’ospedale Gemelli di Roma, Sabelli in un’intervista rilascia a La Repubblica[3], accusa senza mezze misure, alcuni suoi colleghi. Colpevoli, a suo dire, di non rispettare la volontà dei pazienti per paura di finire in galera o per ragioni tutt’altro che deontologiche. La polemica, ovviamente, era dietro l’angolo e ha scosso l’universo medico.

È scoppiata, infatti, come una pentola a pressione. Da un lato, chi crede fermamente nel concetto di etica, così come proposto da Aristotele. Ogni uomo, secondo il filoso, nasce libero e dotato di ragione. Capace di riflette sulle proprie azioni, in base ai suoi principi e ai suoi valori, ma anche sulle conseguenze che da esse derivano.

L’altra faccia della medaglia, quella che ricollegabile alla morale cristiana, ritiene diversamente che spetti solo a Dio decidere il nostro destino. Per usare una metafora, l’uomo è molto simile ad un amministratore che non ha la proprietà del suo corpo. Questi due filoni di pensiero, sarebbero all’origine dello stallo in cui versa la legislazione in materia di eutanasia.

Al netto dei diversi punti di vista, rimane la sofferenza propria e dei propri cari. Lo stesso tormento che, a detta del Presidente dell’ISTAT Giorgio Alleva, sarebbe responsabile del crescente numero di suicidi verificatisi tra i malati terminali nel triennio 2010-2013. Non ultimo quello di Mario Monicelli.

Una statistica che dovrebbe far riflettere, prima di tutto la classe politica. Poi, in secondo momento, tutti coloro che si ergono a paladini della morale fatta ad uso e consumo dei diretti interessati. Che ignora il dolore fisico e psicologico a vantaggio di una coscienza, questa sì, da obbiettare. Basta chiedere al papà di Eluana, impotente per anni di fronte al dolore di sua figlia. Incapace di aiutarla. Possiamo immaginare, che non ci sia peggior cosa per un padre.

Eluana, come Piergiorgio e Walter, aveva le idee molto chiare su come avrebbe voluto morire. Lo aveva deciso qualche anno prima, quando sullo letto d’ospedale c’era finito il suo amico Alessandro. Nonostante questo, l’accanimento riservato ai suoi genitori ha dell’incredibile.

Loro, colpevoli solo di voler porre fine alle sofferenze di una figlia, hanno dovuto aspettare anni perché la sua volontà fosse rispettata. È stata una “pioniera dell’eutanasia” Eluana, la prima a porre l’accento sul diritto ad un fine vita degno e dignitoso. Lei, come gli altri, volevano solo che al diritto di vivere fosse accostato anche quello di morire. In pace, però.

Mattia Bagnato

[1] http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=21758
[2] http://eutanasialegale.it/articolo/testo-unificato-sul-testamento-biologico
[3] http://eutanasialegale.it/articolo/io-medico-e-cattolico-aiuto-i-malati-morire

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