“Riparare i viventi”: un’ode alla vita raccontando la morte
Dal 26 gennaio nelle sale italiane la pellicola della regista Katell Quillévéré sul delicato tema della donazione degli organi
di Federica Albano
su Twitter @federica_albano
“Riparare i viventi” (titolo originale “Réparer les vivants”) non è solo un film, è una tragedia classica messa su pellicola. C’è la vittima, lo struggimento, l’azione che si svolge in breve tempo, la lotta interna, la catarsi.
Il diciassettenne Simon Limbres (Gabin Verdet) ha aspettato l’alba con i suoi amici per fare surf. Tornando a casa hanno un incidente con il furgone sul quale stanno viaggiando. Simon entra così nel limbo che già il suo cognome evocava drammaticamente (in francese “limbe”= limbo, si pronuncia quasi identicamente a Limbres). Il ragazzo entra in coma, poi viene dichiarato cerebralmente morto, la sua vita diventa un’illusione derivata dalle macchine che lo tengono in vita.
Il film ruota attorno al cuore del ragazzo che i genitori dolorosamente decidono di far espiantare. Il cuore visto come scatola nera dell’uomo, sede delle sue emozioni, motore della vita eppure non sufficiente da solo a rendere vivo un corpo. Intorno ai genitori del ragazzo si muovono, come in un coro tragico, gli altri personaggi che faranno sì che il cuore di Simon possa continuare a battere altrove. Una vicenda intima, privata eppure pervasa di collettività: non solo i familiari, ma anche i medici, gli infermieri, la fidanzata ma soprattutto Claire, una violinista in attesa di trapianto, tutti impegnati in un’avventura che dura solo ventiquattr’ore.
Il dramma, inteso come angoscia per la scelta, è ovunque: da un lato il progresso della medicina contemporanea, dall’altro il dilemma più antico del mondo. Quando finisce la vita? Dove si colloca nel corpo? Cos’è la morte? Quanto siamo disposti ad accettare pur di continuare a vivere?
Claire teme il trapianto, soffre all’idea di dover prendere il cuore da un’altra persona ma al tempo stesso non vuole morire e ricevere un organo obbliga necessariamente a quantificare quanta voglia si ha di vivere.
Katell Quillévéré mette in scena magistralmente il romanzo di Maylis de Kerangal, dando maggior spessore al personaggio di Claire. I fotogrammi privi di dialogo sono molti e rallentano il ritmo della narrazione quasi entrando in contrasto con l’urgenza che permea la storia. Un meccanismo funzionale per far capire che la vera emergenza nel film è solo di ordine emotivo.
Una pellicola che si rivela estremamente attuale data la recente svolta nella legislazione francese che dal gennaio di quest’anno rende tutti i cittadini automaticamente donatori in mancanza di palese rifiuto servendosi del presunto consenso. Perché del resto, in certi casi si può solo “seppellire i morti e riparare i viventi”.