“La figlia femmina”, potente romanzo d’esordio di Anna Giurickovic Dato
Restare indifferenti è impossibile. “La figlia femmina” è un romanzo complesso e tragicamente meraviglioso, una strana combinazione di empietà e fragilità
di Margherita Ingoglia
su Twitter @MargheritaIngog
“La figlia femmina”, primo romanzo di Anna Giurickovic Dato (Fazi editore, pagg. 191) è un libro sofisticato e difficile. I protagonisti di questa vicenda – e forse perfino il lettore – ne escono disorientati, sconfitti e consumati. La narrazione polifonica, i capitoli intersecati tra passato e presente cuciti tra loro con fili spinati, sembrano voler completare l’arazzo del disperato e mesto venerdì santo di questa famiglia.
<<Li proteggiamo troppo i nostri figli (…) Un’adulta che non appena scoprirà che non c’è bene senza male, e che bellezza e bruttezza vanno a braccetto sarà vittima di un esaurimento nervoso e incapace di rattoppare gli strappi della vita? >>
Maria ha solo 5 anni quando, da Roma, si trasferisce a Rabat insieme alla mamma Silvia e al papà Giorgio il quale, dopo quattro anni di servizio all’Ambasciata Italiana, viene convocato fuori ruolo nella delegazione europea, in Marocco.
A Rabat, il clima rovente e il sole fasullo, di una luce che inganna e disorienta, si mescolano al profumo forte delle spezie.
<<Il sole, che lentamente cala, gioca con i suoi raggi attraverso la finestra e fa luccicare l’interno della coscia della mia bambina, i suoi sottili peletti biondi, tanto dolci da commuovermi.>>
E sullo sfondo di uno stridente carnevale fatto da vibrazioni, balsami e sapori del souk – nel quale Silvia ama vagare, tra bancarelle che luccicano di specchi decorati e scintillanti, tajine di terracotta, lanterne di ferro battuto e gli odori dei cibi esposti che inondando il mercato con il loro aroma intenso – ogni senso si attiva, e aggiunge un pezzettino fondamentale a questa esperienza.
Ogni senso, tranne la vista, perché nel buio della camerette di Maria, proprio tra quelle lenzuola di casa, lontano da estranei, si consuma il più vile dei drammi.
<<Il padre accarezza le sue parti più nascoste, prima lentamente, poi con determinazione.>>
Il suo diritto di essere figlia, per Maria, viene squarciato da colui che avrebbe dovuto proteggerla dai pericoli del mondo e che invece, proprio come nella scena del sacrificio della pecora, la invita a prenderne parte.
<<Non c’è alcuna ragione per cui una bambina della sua età non debba conoscere la morte e il sacrificio. Vogliamo insegnarle che l’ipocrisia può avere una sua giustificazione?>>
La cruenta scena dello sgozzamento della pecora, il sacrificio dell’innocente, nel romanzo della Dato diventano una metafora mistica assai convincente e di grande effetto, così come mistico è il riferimento del nome della protagonista fanciulla- Maria. E proprio come scriveva Alice Sebold nei suoi “Amabili resti” – Tra le pareti del mio sesso c’erano orrore e sangue; tra le pareti del suo, finestre.
La permanenza a Rabat per i tre, termina al culmine di una immane tragedia che sconvolge l’apparente serenità in cui vegeta la famiglia. Maria inizia a soffrire d’insonnia e ha degli (in)comprensibili scatti d’ira. Per la madre, quella, è diventata un’estranea. La vede come un mostro. <<È malata, è pazza!>>
Così Silvia decide di tornare a Roma dove incontrerà Antonio un pittore dal carattere ambiguo. La figlia, ormai tredicenne, conosce il nuovo compagno della madre in una calda domenica, durante un pranzo che Silvia organizza in casa sua.
Questa nuova vita di Maria ci viene narrato nell’arco di una sola giornata che sembra avere ore dilatate e infinite, ma – e qui sta l’eccezionalità del romanzo – con una scrittura claustrofobica e dialoghi a tratti surreali.
In alcuni passaggi della narrazione sembra di uscire fuori dalla storia e di discutere tematiche di altra natura, forse addirittura di altri libri, il che rende l’atmosfera ancora più inquietante.
In particolare quando Maria e Antonio conversano sul concetto di felicità citando Socrate ed Epicuro, o quando disquisiscono su tomi quali Il processo di Kafka dando giudizi convinti, regalando l’impressione di essere due amici di vecchia data e che Maria non abbia solo tredici anni.
Sotto gli occhi inermi e passivi della madre, Maria proverà a sedurre il suo nuovo compagno Antonio, un adulto, che ancora una volta si trova in casa sua. Come può, una madre, non accorgersi di quello che sta accadendo a due metri dalla sua poltrona?
Le Fimmine de “La Figlia Femmina”
Silvia è una donna in apnea alla vita, ancora in preda agli ormoni. Una signora dal carattere adolescenziale in balia di cotte amorose, in cerca di attenzioni. Un grumo di inadeguatezza e inerzia. Un personaggio fastidioso che ci si augura di incontrare solo nei romanzi!
Maria è una bambina dolce, ma con tanti problemi. E’ una bambina che non sogna, non gioca, ma subisce il silenzio. La sua sensualità esula dalla possibilità di essere paragonata alla protagonista di Nabokov, Lolita, o almeno io non la leggo in questi termini perché, al contrario, credo che questo sua atteggiamento di bambina adulta o bambina smaliziata sia solo uno modo disperato per destare la madre dal torpore della sua abulia.
La scelta della Dato di voler raccontare la tragedia attraverso la voce della madre o attraverso quella di un narratore esterno, che entra ed esce dal romanzo, dà l’impressione che l’autrice voglia far vivere il lettore in uno status di cecità, o riflettere quello in cui vive la madre che offusca la storia con troppe descrizioni,
Il quadro che la scrittrice de “La figlia femmina” fa degli adulti è drammatico. Persone emancipate incapaci di esserlo che corrono dietro una sensualità perversa o, come nel caso di Silvia, amori che rendono ciechi. Rincorrono l’estati e non la felicità.
È sicuramente un libro che fa discutere. Ha un ritmo arduo che potrebbe non prendere subito il lettore, o rapirlo nell’immediato e lasciarlo ingarbugliato nella trama. Più si scava e più vengono fuori interessanti simbologie, merito di una grande preparazione letteraria e culturale dell’autrice.
Restare indifferenti in questo libro è impossibile. Già a pagina 14 si vorrebbe chiudere il libro, mettere pausa e ricominciare a leggerlo sperando che la trama cambia. Si vorrebbe urlare, prestare la propria voce alla piccola Maria, a quella bambina. A quell’innocenza.
Un romanzo complesso e tragicamente meraviglioso, una strana combinazione di empietà e fragilità.
La figlia femmina
di Anna Giurickovic Dato
Fazi Editore, collana Le Strade
pagg. 192, € 10
Anna Giurickovic Dato
È nata a Catania nel 1989 e vive a Roma. Nel 2012 un suo racconto si è aggiudicato il primo posto al concorso Io, Massenzio in seno al Festival Internazionale delle Letterature di Roma. Nel 2013 è stata finalista al Premio Chiara Giovani. La figlia femmina è il suo primo romanzo.