I musei possono battere i centri commerciali. Con tecnologia e partecipazione
Marianna Marcucci, uno degli ideatori di “Invasioni Digitali”, racconta a Ghigliottina come può cambiare la fruizione culturale. A partire da uno smartphone
di Federica Salzano
su Twitter @FedericaSalzano
“L’arte diventa conoscenza quando viene condivisa”. È questo lo spirito che anima Invasioni Digitali, un progetto che – dal 2013 – promuove un nuovo approccio al patrimonio culturale: il più possibile accogliente e inclusivo. Ogni anno – tra fine aprile e inizio maggio – gli invasori digitali, armati di smartphone e tablet, si danno appuntamento in musei, siti archeologici e molto altro, per vivere, raccontare e condividere la propria esperienza.
Ghigliottina li ha seguiti sin dall’inizio e oggi, a quattro anni dalla prima edizione, incontra Marianna Marcucci – co-fondatrice del progetto insieme a Fabrizio Todisco.
Dottoressa Marcucci, qual è il bilancio dei primi anni di Invasioni Digitali? In che modo è cresciuta l’iniziativa?
Sicuramente siamo cresciuti nei numeri, ma non è questo l’aspetto principale. A essere per noi veramente importante è il coinvolgimento degli individui e delle istituzioni. Nel 2013 abbiamo iniziato a collaborare con partner che ci conoscevano personalmente e che ci hanno dato fiducia. Oggi siamo più diffusi e contiamo su una maggiore partecipazione istituzionale.
Come funzionano le Invasioni? Qual è l’idea alla base del progetto?
Dal primo anno abbiamo lanciato questa sfida: andate a invadere musei, centri storici, gallerie o strade. Qualsiasi percorso può essere oggetto d’invasione digitale e ognuno può decidere di proporne uno nuovo. La volontà è coinvolgere le persone nella promozione attiva del patrimonio culturale. Intendiamo superare il concetto di comunicazione unilaterale da parte delle istituzioni e instaurare piuttosto un dialogo tra queste e gli utenti. D’altronde sono questi ultimi a invadere fisicamente i luoghi culturali, entrarne in contatto diretto e instauravi una relazione. E in questa esperienza non c’è più solo il museo che si promuove o l’individuo che lo racconta, ma è la conversazione tra loro che diventa il fulcro di tutto.
Quanto conta la sensibilità di ogni invasore nella riuscita dell’iniziativa?
Molto. E il bello è che ognuno è diverso e coglie qualcosa di unico. Ovviamente alla base ci deve essere un dato di conoscenza dell’opera in questione. Non teorizziamo l’ignoranza della storia dell’arte a favore di un selfie o di una fotografia. Anzi, la conversazione sta proprio in questo: il passato può entrare in contatto con il presente attraverso la sensibilità degli invasori, attraverso ciò che percepiscono. E il loro racconto aggiunge valore all’opera e alla visita.
L’uso degli smartphone può comportare il rischio di mettere l’opera in secondo piano rispetto allo scatto?
Gli smartphone o i tablet sono degli strumenti, prescindono dal modo in cui vengono utilizzati. Posso fotografare il particolare di un’opera e questo non vuol dire che io non stia pensando al suo significato. Ritengo piuttosto auspicabile che le persone usino questi strumenti avendo allo stesso tempo la consapevolezza della storia e del valore di quello che osservano. La tecnologia, come tante altre cose, può essere impiegata in modo superficiale o intelligente. Noi cerchiamo di promuoverne un uso a favore del bene culturale. E ogni tanto ci scattiamo anche un selfie, perché non è detto che un momento ludico non possa associarsi a forme di apprendimento.
Cosa risponderebbe a chi vede in una fruizione diversa dell’arte – più informale, multimediale, interattiva – un rischio di mercificazione della cultura?
Credo che al centro del ragionamento debbano esserci sempre gli individui. C’è chi ha avuto la possibilità di studiare l’arte e chi no. Ci sono tante persone che vivono il rapporto con il bene culturale quasi in imbarazzo. Magari non conoscono il senso di un’opera e non riescono a percepirne il valore. In questo caso penso che la tecnologia possa essere d’aiuto. Una visita in realtà aumentata può, ad esempio, rendere comprensibile un reperto archeologico a chi non ne conosce la storia. Dobbiamo offrire ai visitatori la possibilità di sentirsi coinvolti se non vogliamo che trascorrano tutto il proprio tempo libero ai centri commerciali. Per questo se i musei riuscissero a essere più inclusivi, la gente tornerebbe a frequentarli o addirittura a visitarli per la prima volta.
L’Italia come ha affrontato le sfide del digitale?
Siamo ancora nel pieno del cambiamento. Il digitale, sia chiaro, non è una panacea e, per quanto oggi imprescindibile, resta uno strumento. Funziona cioè solo se associato a un’innovazione in senso ampio, che sia relativa al modo stesso di concepire il museo. Certamente in Italia se ne discute e parlarne fa bene. Però c’è ancora tanto da fare ed è arrivato il momento di mettere i discorsi in pratica.
Quali sono i progetti futuri per le Invasioni?
In quanto partner dell’APM (Associazione Nazionale Piccoli Musei) stiamo organizzando la giornata nazionale dei piccoli musei il 18 giugno 2017. E poi c’è la nuova edizione di Invasioni Digitali: dal 21 aprile al 7 maggio 2017. Quest’anno abbiamo scelto di dedicare l’iniziativa a un tema che abbiamo molto a cuore: l’emigrazione. Il claim non a caso è Culture has no borders. Pensiamo che le differenze siano sane, interessanti e belle. Vorremmo che ci fosse una maggiore commistione tra le diverse culture e che la cultura stessa fosse considerata per quello che è: un collante per tutte le popolazioni.