La La Land: è l’America che (finalmente) tramonta?
Da qualche settimana nelle sale italiane c’è” La La Land”, musical 2.0 di Damien Chazelle. Candidato a ben 14 Academy Awards, racconta di ambizione con tono nostalgico e delicato. Eppure, splendidi abiti e canzoni commoventi possono bastare a rappresentare gli USA nel 2017? Una riflessione sul ruolo del cinema che vuol dimenticarsi di sé
di Gloria Frezza
su Twitter @lavanagloria
Quando un film siede, come in questo caso, placido e sereno su una montagna di premi già vinti, farne una recensione sembra un’idea superba. Sette Golden Globe, due AACTA Awards, un posto tra i “10 migliori film del 2016” secondo il New York Times e ben 14 nomination ai prossimi Oscar. È un trionfo, indubbiamente. Parliamo di “La La Land”, il musical “colto” e nostalgico di Damien Chazelle che ha riportato l’America a sognare.
Chazelle torna a noi dopo Whiplash, una pellicola fortissima e faticosa, che dipingeva l’ambizione come un mostro affamato che distrugge impietosamente chiunque gli si pari innanzi. Anche La La Land parla di questo, dell’ambizione pura e semplice, intesa come la “voglia matta” di realizzare un sogno. Sappiamo da sempre quanto questo tema sia caro agli americani, edulcorato ed addolcito come conviene. La semplice idea che un uomo o una donna qualunque possano scalare un’immaginaria piramide del successo, fino a toccarne la cima è in effetti un punto debole dell’anima. Chiunque desidera poter credere nell’insperabile, poter guardare le star e pensarsi al loro posto.
Questa lunga premessa era necessaria per giustificare innanzitutto la clemenza con la quale un tema tanto poco originale e fantasioso, è stato così facilmente accettato dal pubblico. Insomma, sognare piace a tutti. Farlo cantando e ballando, poi. Pur essendo classificato come un musical, in effetti nelle due ore di film ci sono ben poche canzoni. Ma se la qualità è ancora il più apprezzato dei pregi, queste poche bastano. La colonna sonora, figlia di Justin Hurwitz e con i testi di Benj Pasek e Justin Paul (di John Legend invece, avremmo volentieri fatto a meno), è costellata di brani splendidi ed innovativi che sono il vero quid del film. Da “A Lovely Night” fino a “Planetarium”, per raggiungere l’apice con “Audition (The Fools Who Dream)”, in cui la voce di Emma Stone commuove senza sforzo e lascia impotenti e ammirati.
Emma Stone, proprio lei, candidata come miglior attrice e altra metà della mela di Ryan Gosling, il protagonista maschile. Rinnovati Fred Astaire e Ginger Rogers, i due hanno il pregio di essersi consegnati nelle mani di Chazelle senza opporre la minima resistenza. Lui, stella opaca da commedia con la terribile reputazione del “belloccio”; lei, al centro delle ultime chiacchiere hollywoodiane, con svariati ruoli impegnati alle spalle e nell’attesa di benedire definitivamente il suo curriculum. Una coppia riuscita? Non saprei. Indubbiamente umilissimi nei confronti della regia, i due hanno sacrificato a questo altare le reciproche personalità. Quel che ne è risultato sono due burattini, simpatici e ben vestiti, che però potrebbero essere chiunque. Li ho trovati entrambi enormemente più convincenti nei monologhi che nelle scene corali, e assolutamente rivedibili nelle scene a due, che dovevano essere le più forti. Persino nel Planetario, dove volano letteralmente tra le stelle dell’universo, risultano ingessati più che conturbati dall’ipnosi amorosa.
Ad aiutarli non c’è nemmeno la trama, purtroppo. Piuttosto scontata, è una storia d’amore tra due “egoisti”. Due persone che sarebbero state molto felici insieme, per quanto non ricche o realizzate, che decidono di sacrificare questa felicità all’altare del successo. La vera originalità sta forse nella conclusione, in cui di questa scelta pare non pentirsi nessuno dei due. Il messaggio di Chazelle arriva forte e chiaro: non c’è infelicità nello scegliere sé stessi. Di questi tempi, come morale non è scontata.
Cosa dunque, rende La La Land degno della follia amorosa che ha conquistato il pubblico? Risponderei l’atmosfera. Gli accordi cromatici, l’equilibrio delle location, le performance musicali quasi tutte in superbi piano-sequenza, consegnano al cinema un raro esempio di piacevolezza visiva. Chazelle fa cantare Los Angeles, ridipingendo letteralmente la città. Così mentre sembrano tornati gli anni ‘20, con un fruscio di sete siamo ai ’60, tre note di sassofono e il Jazz cambia di nuovo tutto. Gli artifici di scena poi, che a volte sfiorano il magico, sono la vera meraviglia. La La Land è un film che tocca le corde giuste, che compiace corpo e spirito in totalità. Il montaggio è impeccabile, talmente ben orchestrato da innescare quella pulsione estatica riservata ormai solo alle belle poesie.
Questo film è un deliquio di richiami felici ad altri musical storici. Un omaggio che non si trasforma mai in un plagio, riportandoci contemporaneamente in West Side Story, Singin’ in the Rain e Grease ad un frame di distanza. Chazelle è un regista delicato, avvicina il genere musical con una specie di rispetto sacrale, insieme però con la smania di riproporne uno che li riassuma tutti. Peccando forse di ubris, diremmo noi, ma con il sorriso sulle labbra.
Concluderei citando l’attrice e pittrice Jemima Kirke, un’adorabile indie lady che ci ha conquistati nel ruolo di Jessa in Girls: “Immagina di entrare in una sala massaggi perché ti fa male la schiena. Ma invece di curarti, loro ti ci soffiano dolcemente aria tiepida sopra per due ore. Questo è La La Land. Sarebbe carino se fosse il 1933. Dobbiamo essere storytellers migliori di così. Un riposino sarebbe stato più produttivo”.