Referendum Turchia: comunque vada non sarà un successo
Tra poco più di un mese la Turchia sarà chiamata alle urne per un importante referendum costituzionale. L’opposizione a Erdogan si mobilita contro la svolta autoritaria
di Guglielmo Sano
su Twitter @guglielmosano
Pablo Larraín è un giovane regista cileno. Ultimamente ha guadagnato la ribalta internazionale per aver diretto Jackie, pellicola sulla vita di Jacqueline Kennedy dopo l’attentato di Dallas. Pochi mesi fa, invece, era uscito nelle sale con un altro film intitolato Neruda. Come facilmente intuibile, trattava la vicenda biografica di uno dei più noti poeti del 900. Un espediente usato da Larraín per trattare i momenti cruciali della storia recente del suo paese. Un “metodo” che aveva usato anche in altre due occasioni, nel 2010, con Post Mortem, e due anni dopo con No.
Forse è proprio quest’ultimo il suo lungometraggio più conosciuto, tra l’altro il primo a rendergli una candidatura agli Academy Awards. No è ambientato nel 1988, quando in Cile si tenne un referendum epocale. Nello specifico, il quesito era: volete concedere altri 7 anni di mandato al Presidente Augusto Pinochet? Il film segue da vicino la campagna elettorale promossa dall’opposizione alla giunta militare che teneva sotto scacco il paese da 15 anni. Alla fine, grazie soprattutto a una brillante intuizione, lo slogan “Chile, la alegría ya viene” – “Cile, l’allegria sta arrivando” – il regime verrà battuto.
Digitürk, forse la rete televisiva turca più seguita – quella che trasmette il campionato di calcio, tanto per capirci – a metà febbraio, ha rimosso No dalla propria piattaforma digitale. L’emittente appartiene a una società del Qatar, monarchia del Golfo con cui il Presidente Erdogan è in strettissimi rapporti. Escludendo casi eccezionali, il 16 aprile la Turchia sarà chiamata alle urne per esprimersi su alcune modifiche costituzionali che darebbero al paese una forte impronta presidenziale. Sembra che l’opposizione turca avesse scelto di impostare la propria campagna per il “No” prendendo spunto dall’esperienza cilena. Questo, secondo alcuni, spiegherebbe la rimozione del film. Insomma, l’ennesimo – piccolo ma significativo – segnale di censura, di pressione sugli oppositori.
A fine febbraio, la sezione giovanile del CHP – il partito “kemalista”, ossia il movimento socialdemocratico e laico che oggi rappresenta la maggiore forza di opposizione a Erdogan – ha scelto di invitare in Turchia Francisco Garcia Ferrada, il pubblicitario cileno che ha ispirato il film No, per promuovere la propria campagna antipresidenziale. A differenza di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, però, l’endorsement di Ferrada è stato tutto tranne che completo. “Sono in Turchia da una settimana e non ho ancora capito le ragioni del No” ha detto, rilevando innanzitutto la mancanza di una “prospettiva” per il paese al di là del voto e insistendo, poi, sul fatto che il Cile del 1988 non è la Turchia di oggi – ridimensionando sensibilmente il nucleo della campagna dell’opposizione: approvare la riforma presidenziale spianerà la strada alla dittatura.
Ma, allora, in cosa consiste questo controverso progetto che mira a cambiare radicalmente il modo in cui la Turchia è governata? Se vincesse il “Sì”, sintetizzando per quanto possibile il contenuto dei 18 emendamenti oggetto della consultazione:
1) il Presidente della Repubblica verrebbe eletto tramite voto popolare, per un massimo di due mandati di 5 anni ciascuno, nello stesso giorno in cui si vota per il parlamento che sarà composto da 600 deputati. Verrà abolito il “diritto di interpellanza” che permette al Parlamento di supervisionare concretamente le decisioni dell’esecutivo. Un procedimento di impeachment contro il Presidente può essere avviato con il voto favorevole di minimo 301 deputati.
2) il Presidente non sarebbe solo il Capo dello Stato ma anche del governo. Avrà la possibilità di mantenere i legami con un partito politico. Sarà sua prerogativa nominare i ministri, che dovranno rendere conto del proprio operato solo al Presidente, emanare decreti, proporre la legge di bilancio e, in caso di voto favorevole del Parlamento, dichiarare lo “stato di emergenza” ogni volta che si ritenga la Costituzione minacciata.
3) Verranno abolite le Corti Militari (a meno che non si debba giudicare il comportamento di soldati in guerra). Non ci saranno più posti riservati ai membri delle forze armate nella Corte Costituzionale. Si creerà un Consiglio Superiore della Magistratura composto da 13 membri di cui 4 nominati dal Presidente e 7 di nomina parlamentare (gli altri 2 sono il ministro della Giustizia e il suo sottosegretario).
Per i sostenitori del “No”, se attuate, tali riforme determineranno ben più di un passaggio a un sistema presidenziale. Assottigliando la “separazione dei poteri”, che andrebbero in buona parte a concentrarsi nelle mani di una sola carica, e diluendo “pesi e contrappesi” vigenti nell’attuale sistema, vista la probabile sovrapposizione tra Parlamento e partito di maggioranza, la Turchia diventerebbe più che altro un regime autoritario.
I sostenitori del “Sì”, d’altro canto, sostengono che le modifiche costituzionali assicureranno la piena espressione e il rispetto della volontà popolare, eliminando ogni elemento oligarchico ancora presente nell’assetto istituzionale del paese e garantendo stabilità e governabilità.
È ancora presto per sbilanciarsi sul risultato della consultazione di metà aprile. Considerando la media dei sondaggi finora condotti sul tema, il fronte del “Sì” e quello del “No” sembrano essere in sostanziale parità. Detto ciò, possiamo dire che i due maggiori partiti contrari alla riforma, il CHP e il pro-curdo Partito Democratico del Popolo (HDP), alle ultime elezioni del novembre 2015 hanno raccolto insieme il 36%. D’altra parte, secondo alcuni analisti, nonostante l’alleanza con l’AKP, almeno la metà degli elettori dell’MHP, partito nazionalista e panturchista che due anni fa ha preso il 12%, sarebbe contrario alle modifiche costituzionali. Quindi, sembra proprio che per la vittoria di uno dei due schieramenti sia fondamentale il voto di una parte degli stessi elettori del partito di Erdogan (che nel 2015 ha sfiorato il 50%). Alcune rilevazioni statistiche riferiscono che, addirittura, il 20% di chi ha votato per l’attuale Presidente sarebbe orientato verso il “No”.
Tuttavia, anche se alla fine si concretizzasse, la vittoria del “Sì” avrebbe comunque un sapore amaro. Secondo il Democracy Index stilato, come ogni anno, dall’Economist Intelligence Unit, la Turchia è tuttora un “Hybrid Regime”, in parole povere può essere definita democrazia solo dal punto di vista formale. Erdogan è già al potere da 14 anni e se vincesse il referendum potrebbe mantenere le redini del paese, con più ampi poteri, fino al 2029. D’altra parte, niente lascia pensare a un suo passo indietro riguardo a tali propositi in caso di sconfitta.
La Turchia di oggi non è il Cile di Pinochet. Ma a ben vedere gli assomiglia molto.
Nessuna risposta
[…] Infatti, mentre il Partito del Lavoro (PvdA) si avvicinava sempre più alla peggiore disfatta della sua storia (punito principalmente per l’appoggio alle politiche d’austerity), i centristi conservatori hanno scelto di irrigidire le proprie posizioni sull’immigrazione per non concedere troppo “a destra”. Nel frattempo, Rutte svestiva i panni del “moderato” per indossare quelli dell’«uomo forte» in uno scontro a distanza con Erdogan in cerca di consensi tra i turchi che vivono nei Paesi bassi in vista del prossimo referendum costituzionale. […]