Critica politica e, forse, redenzione: “Spirit”, il nuovo album dei Depeche Mode

Tempo di lettura 4 minuti

Lo scorso 17 marzo i Depeche Mode hanno pubblicato “Spirit”, il loro quattordicesimo album in studio. Un disco che vede nella critica politica e sociale uno dei suoi punti di forza

di Annamaria Serinelli
su Twitter @A_Lianse

Differenti da qualsiasi categoria, da qualsiasi altro gruppo, e perfino da se stessi. I Depeche Mode hanno avuto innumerevoli vite, con altrettante fasi oscure e resurrezioni, fino al nuovo album, “Spirit”: un distillato purissimo di tutte le ombre di questa parte del XXI secolo. Come sempre, la musica di Martin Lee Gore, Dave Gahan ed Andrew Fletcher è venata di lampi elettronici, sensualità delle voci – quella di Gahan in tutte le canzoni, eccetto in due cantante da Gore -, con l’aggiunta di un nuovo importante elemento: la produzione affidata a James Ford (membro dei Simian Mobile Disco e già produttore di Arctic Monkeys e Klaxons), che in alcuni pezzi suona anche la batteria e la chitarra hawaiana.

“When I’m not there/ In spirit I’ll be there”: lo scriveva Martin Gore in Shake the disease (nella raccolta The singles 81-85), e in “Spirit” c’è la voglia di parlare di un disagio condiviso, ma anche creato da noi stessi. “Siamo tutti accusati di tradimento (…) / Siamo il giudice e la giuria/ Il boia, il condannato”, canta Dave Gahan in The worst crime; e ancora, “Stiamo andando indietro/ Armati con nuova tecnologia”, in Going backwards, canzone dalla sonorità potente che apre il disco con un accordo di pianoforte incalzante, netto. Le parole usate fin nei titoli suonano forti e impietose: Scum (canaglia), Fail (fallimento), The worst crime (il crimine peggiore), Poorman (poveruomo), sono tutte riferite a un’umanità che “ha perso la sua anima”. Ed ecco che in So much love si affaccia la speranza che, a dispetto di tutto, dentro di noi ci sia un sentimento che unisce oltre le vicissitudini attuali e che permette il loro superamento. Questa la vera rivoluzione, la risposta alla domanda retorica e forse antipopulista del primo singolo estratto dall’album: Where’s the revolution?

Cuore pulsante di “Spirit” sono You move e Cover me, dove gli intriganti passaggi elettronici della prima e i suoni avvolgenti della seconda forniscono un riparo sicuro nei sentimenti e nell’intimo chiarore delle prime luci del giorno, dopo una notte insonne. You move è stata scritta da Martin Gore insieme a Dave Gahan, mentre Cover me e Poison heart vedono come autore Dave Gahan insieme a Peter Gordeno e Christian Eigner, storici collaboratori dei Depeche Mode. Tutti gli altri pezzi, come di consueto, sono di Martin Gore.

Le tematiche tipiche dei Depeche Mode tornano anche stavolta: il peccato e il fascino del male, in No more (This is the last time), la possibilità di salvarsi e il raggiungimento di angoli di bellezza intrisa di nostalgia, in Eternal, etereo brano cantato da Martin. Ma a prevalere in “Spirit”, come in nessun album precedente, è la critica politica e sociale, espressa a gran voce, pur senza volersi schierare, nel tipico stile indipendente e libero del gruppo di Basildon.

Come sottolineato da Gahan in un’intervista a Les Inrockuptibles, il cambio di produzione costituiva una nuova sfida per i Depeche Mode, e James Ford ha dato un grande apporto al gruppo, sia come musicista che come produttore. Ma i fan storici (i “devoti”, come amano definirsi), riconosceranno echi familiari anche in “Spirit”. Alcuni meno graditi, come quelli provenienti dall’album ben confezionato ma completamente dimenticato “Sounds of the universe” (2009), di cui sono comparse anche alcune canzoni in scaletta nel concerto di Berlino trasmesso in streaming lo stesso giorno dell’uscita dell’album. Altri richiami sono molto cari alla memoria, come la citazione di Question of time che sembra evidente in So much love, l’atmosfera affine a Little 15 (ma anche alla più recente Little soul) in Eternal, le seducenti pulsazioni di Soothe my soul in You move, il blues dell’album Songs of faith and devotion (1993) che pervade molti pezzi, e l’oscurità di Black celebration (1986). L’elettronica imponente, lo stile e la grafica della copertina a cura di Anton Corbijn si muovono invece nel solco di Playing the angel (2005).

In una parola, mentre nei live dei Depeche Mode prevalgono la tradizione e la grandezza di un gruppo storico, questo nuovo album è sperimentazione. Un momento che spiazza, che non chiede per forza di essere ricordato, ma che semplicemente vuole far riflettere ed ha tutta la forza per farlo, infondendo un nuovo spirito, denso di significati.

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