Quale speranza per la Libia?
Dopo 6 anni di caos il paese nordafricano è a un bivio, con il premier Serraj che soffre la crescente influenza di Haftar. Sarà il generale l’uomo forte che garantirà la fine delle ostilità in Libia?
di Guglielmo Sano
su Twitter @GuglielmoSano
È una problematica comune a molti stati sorti dalle ceneri del colonialismo: come tenere insieme gruppi etnici e religiosi diversissimi tra loro sotto un’unica bandiera? La Libia, a suo modo, ha sempre rappresentato un’eccezione a questa “regola”. La sua popolazione, infatti, è prevalentemente araba e musulmana sunnita. Piuttosto, sono state le divisioni tribali a proiettarla spesso sull’orlo del baratro. Il tradizionale attrito tra i clan si concentra, ancora oggi, nella rivalità tra le regioni in cui è possibile dividere il paese nordafricano: la Tripolitania a nord-ovest, la Cirenaica a est e il Fezzan a sud-ovest. Lo snodo fondamentale della conflittualità è però quello tra Cirenaica e Tripolitania. Visto che il Fezzan si allinea regolarmente, dal punto di vista politico, al vicino settentrionale.
Gheddafi era riuscito a “smorzare” le tensioni, da una parte attraverso l’accentramento del potere, dall’altra, cooptando i leader tribali maggiormente disposti a collaborare e punendo quelli meno malleabili. Un metodo oppressivo quanto efficace. Con la fine della dittatura, i problemi sono velocemente riemersi. Secondo alcuni studi, allo scoppio della “rivoluzione”, nel 2011, esistevano circa 140 tribù e clan in Libia, anche se non più di 30 avevano una certa influenza sulle vicende nazionali. Nonostante il colpo di stato contro la monarchia e i successivi sforzi del Colonnello per portare il paese sulla strada del “socialismo reale”, la connessione tribale ha continuato a essere un elemento importantissimo nella società libica. Il rispetto dei propri diritti, l’accesso al mondo del lavoro, persino la protezione personale dipendevano dall’appartenenza a un clan. Tuttavia, anche il sistema tribale ha perso peso nel corso di questi ultimi 6 anni.
Nell’odierno caos libico i clan sono solo una delle numerose variabili della lotta per il potere che vede come protagonisti, ora più che mai, il Governo dell’Accordo Nazionale (GNA) e l’Esercito Nazionale Libico (LNA). Il GNA controlla la parte nord-occidentale (Tripolitania) della Libia e circa metà della regione sud-occidentale (Fezzan). È appoggiato da una coalizione di milizie islamiste e non denominata “Alba Libica” e da buona parte della comunità internazionale. L’LNA, invece, è formato sostanzialmente dai militari fedeli al generale Khalifa Haftar e viene sostenuto dal Parlamento di Tobruk – che non riconosce il governo di Tripoli – ma anche dalle più importanti tribù della Libia orientale e da alcuni clan del Sud.
Giusto un anno fa il governo di “riconciliazione” guidato da Fayez Al Serraj – ex membro del Parlamento di Tobruk – si è insediato nella capitale dopo un periodo di “esilio” in Tunisia. Sul premier libico sta puntando forte l’ONU ma anche l’Italia che tenta costantemente di collaborare con Tripoli per limitare gli arrivi di migranti. Negli ultimi 12 mesi, il GNA ha ottenuto dei successi per lo più simbolici, come la vittoria sullo Stato Islamico a Sirte – ottenuta grazie ai raid dell’aviazione Usa e alle milizie di Misurata – e la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli. Diametralmente, la Libia è sprofondata in una grave crisi finanziaria: le tensioni tra i gruppi armati (in particolare quelli fedeli all’autoproclamatosi primo ministro Khalifa Ghweil) sono tutt’altro che sopite e la gestione dei preziosi giacimenti petroliferi resta tuttora un’incognita.
Il principale avversario del governo di Serraj è Khalifa Haftar. Acerrimo nemico del fondamentalismo islamico ma poco disposto a dialogare anche con l’Islam di tonalità “istituzionale”, compromesso con il vecchio regime ma sospettato di aver avuto legami con la CIA, il Generale aspira a diventare il capo di un esercito libico con ampi poteri su tutto il territorio nazionale quando l’Occidente lo preferirebbe sottomesso all’autorità di Tripoli. Da fine 2016 può contare sull’endorsement di Mosca che punta a ritagliarsi un ruolo in Nord Africa ma senza “sporcarsi” le mani come in Siria.
Putin avrebbe individuato in Haftar un “nuovo” Gheddafi. Il paragone non è così sbagliato: anche il Colonnello stabilì un legame diretto con l’URSS, basato sulla vendita armi e petrolio; come Gheddafi, il Generale Haftar ha compreso l’importanza della frammentazione tribale libica e con i clan si appresta a stipulare un “matrimonio di convenienza”.
Insomma, sembra essere andato letteralmente in frantumi il sogno di una Libia “democratica”: il paese, ancora una volta, pare destinato a passare nelle mani dell’«uomo forte» – se sarà emanazione dell’ingerenze occidentali, di quelle delle monarchie del Golfo, di quelle russe, non è possibile dirlo con certezza. Allo stato dei fatti, il profilo di Haftar sembra quello più adatto per il “ruolo”, anche alla luce di una, seppur mite, distensione tra Washington e la Russia. La diplomazia ha i suoi tempi, nel frattempo, la Libia continuerà a vivere in un’atmosfera di “colpo di stato perenne” ma la stabilizzazione del paese è ormai un obiettivo trasversale.
Tra i motivi, ovviamente, il contrasto al terrorismo islamico e all’immigrazione clandestina ma soprattutto l’ingente patrimonio energetico dello “scatolone di sabbia” che possiede le risorse petrolifere più vaste del continente africano, tra le più pregiate al mondo, oltre che ingenti quantità di gas naturale. Secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, nel 2012, gli idrocarburi rappresentavano il 96% degli introiti statali e il 98% delle esportazioni. Ecco, chiunque riuscirà a garantire la produzione, continuamente messa a repentaglio dall’anarchia degli ultimi anni, finirà per prendersi anche la Libia, in pace o meno.