Siria, il tassello mancante nel mosaico della guerra civile
Alla luce delle rinnovate tensioni tra USA e Russia l’Europa può giocare un ruolo determinante: rappresentare una terza via e porsi come attore politico credibile alla guida dei negoziati
di Marco Assab
su Twitter @marcoassab
Chiamarla guerra civile è ormai riduttivo, fuorviante. In Siria c’è molto di più. Anzitutto un orrore senza limiti, che si manifesta sotto molteplici forme e non risparmia nessuno. L’attentato che pochi giorni fa ha preso di mira i profughi in fuga da Fua e Kafraya, ne è un esempio. Non è facile districarsi nel marasma di mezze verità e propagande varie, ma sembra ci fosse un accordo che prevedeva l’evacuazione di civili dalle due enclavi governative sciite della provincia di Idlib, controllata dai ribelli. In totale circa 5.000 persone che, organizzate in un convoglio di 75 autobus, avevano come destinazione Aleppo, Latakia e Damasco.
D’altro canto anche i civili di Madaya e Zabadani, zone ribelli assediate dalle forze di Assad, avrebbero potuto raggiungere un luogo sicuro. Uno scambio alla pari insomma. Ma in questa guerra dalle mille sfaccettature gli accordi hanno un valore vicino allo zero. I civili, i bambini, valgono meno che zero. Mentre alcuni bus erano in attesa di entrare ad Aleppo, un ordigno sistemato su un camion che sembrava trasportare aiuti e cibo ha causato la morte di circa 120 persone – tra cui una settantina di bambini. Nessuna rivendicazione.
In Siria si è arrivati al punto di morire senza sapere per mano di chi, si muore e basta. Come nel caso dell’attacco chimico della settimana scorsa, per il quale siamo ancora qui a domandarci chi sia stato. Assad? I ribelli? Si, ma quali? Sotto la voce “ribelli” rientra una galassia di sigle che non solo fanno la guerra al regime, ma che combattono anche tra di loro. In questo tutti contro tutti, delineare lo schema delle forze in campo non è semplice. Per farlo bisogna anzitutto considerare la contrapposizione tra sciiti e sunniti (le due principali correnti dell’Islam), poi il ruolo svolto dalle grandi potenze occidentali e da quelle regionali del Medio Oriente.
Le forze pro Assad
Bashar al-Assad – e prima ancora suo padre Hafiz al potere dal 1971 – è di fede alawita, un gruppo religioso musulmano sciita. Gli alawiti sono dunque espressione della classe dirigente siriana da più di quarantanni, benché il Paese sia a larga maggioranza sunnita. In ragione di ciò, a sostenere la causa di Assad ci sono l’Iran sciita – che ha inviato sul campo i pasdaran, i guardiani della rivoluzione khomeinista del 1979 – e i miliziani di Hezbollah, il partito sciita libanese la cui ala militare si dice sia più potente dell’esercito regolare del Libano. Particolare interessante: Hezbollah nacque nel 1982 e le sue forze militari furono addestrate proprio dai pasdaran.
Il ruolo della Russia
In questo quadro di alleanze si inserisce la Russia, storico alleato della Siria, che nel Paese mediorientale può contare su proprie basi militari (quella navale di Tartus risale al 1971, in pieno periodo sovietico). L’impegno militare della Russia a favore di Assad risponde a due esigenze. Innanzitutto, il timore di perdere un vecchio alleato (praticamente l’unico rimasto) nella regione. In secondo luogo, la rinnovata volontà russa di giocare un ruolo determinante nello scacchiere mediorientale (e più in generale nel pianeta), accrescendo il proprio peso politico e militare, approfittando anche del progressivo disimpegno americano voluto da Obama ma che ora, viste le repentine mosse di Trump, sembra non essere più così scontato. Da qui dunque gli echi di una nuova guerra fredda, con lo sbiadirsi delle speranze circa un miglioramento delle relazioni a seguito dell’elezione di Donald Trump.
Le forze avverse al regime
Sul fronte degli oppositori invece, all’iniziale formazione moderata dell’Esercito Siriano Libero – formatasi nel 2011 a sostegno delle proteste contro il regime, e composta prevalentemente da disertori dell’esercito regolare – si sono affiancate negli anni forze estremiste che hanno rischiato di sopraffare lo stesso ESL. Oltre al famigerato Stato Islamico, che controlla un territorio a cavallo tra Iraq e Siria comprendente le due città dichiarate capitali al-Raqqa (Siria) e Mosul (Iraq), la formazione che più ha inciso nello scacchiere siriano è quella costituita dal Fronte Al-Nusra – gruppo jihadista salafita che non solo combatte Assad, ma anche l’Esercito Siriano Libero e perfino lo stesso Isis. Tale gruppo è stato affiliato ad al-Qaida fino al Luglio 2016, mentre il 26 gennaio 2017 si è fuso con quattro formazioni minori, assumendo il nome Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante). Il regime di Assad non fa alcuna distinzione tra ribelli moderati (ESL) ed estremisti (ex al-Nusra e Isis), catalogandoli tutti sotto la voce “terroristi” e combattendoli allo stesso modo.
Gli Usa e le potenze occidentali
In questo quadro complesso, gli Stati Uniti e gli alleati occidentali – in particolare Francia e Gran Bretagna – non contemplano un ruolo per Assad nel futuro della Siria, sostenendo dunque i ribelli moderati (ESL) ed avendo come riferimento politico la Coalizione Nazionale Siriana, organo che riunisce la maggior parte delle forze di opposizione al governo. Parallelamente c’è anche la lotta contro l’Isis e le altre formazioni terroristiche. L’obiettivo è dunque favorire l’avanzata dei ribelli moderati a sfavore di Assad e, contemporaneamente, dei gruppi estremisti.
Il ruolo dei Paesi del golfo
I più importanti Stati sunniti del Medio Oriente, tra i quali Arabia Saudita e Qatar, avversano il regime di Assad e i suoi alleati sciiti, sostenendo quindi le forze di opposizione. Non sono mancate in questi anni ipotesi circa un sostegno, da parte di questi Paesi, non solo alle formazioni moderate ma anche a quelle più estremiste.
I curdi e la Turchia
Quella dei curdi siriani è una pagina che va letta a parte, benché determinante nel mosaico della guerra. Le milizie organizzate nell’Unità di Protezione Popolare (YPG) hanno eroicamente resistito e respinto l’ISIS nel nord del Paese, al confine con la Turchia. I curdi, come è noto, sono una nazione senza Stato, divisa tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Il Kurdistan è al momento solo il nome di un vasto altopiano indicato sulle cartine geografiche, ma non una entità statuale indipendente. Con le vittorie sul campo contro i terroristi dell’ISIS, i curdi hanno incrementato il proprio peso politico e militare e mai come adesso potrebbero ambire a rivendicare un proprio Stato. Al momento controllano porzioni di territorio nel nord della Siria, e premono su al-Raqqa, capitale dello Stato Islamico. Sono sostenuti dagli USA ma, in virtù del pericolo secessionista che danneggerebbe la Turchia, rappresentano uno spauracchio per Erdogan, che non ha esitato finora a combatterli per tenerli a bada, unitamente all’ostilità nei riguardi del regime di Assad e dello Stato Islamico.
E l’Unione Europea?
In questo mosaico dai mille tasselli ce n’è uno che manca, quello dell’Unione Europea. L’UE fa fronte ormai da anni all’emergenza umanitaria che ha visto arrivare centinaia di migliaia di profughi in cerca di asilo. Dovrebbe essere il principale attore politico, quello con maggior voce in capitolo ma, ancora una volta, si ha l’impressione che i Paesi del vecchio continente si muovano un po’ per conto proprio, come già osservato altre volte in passato. La Francia è militarmente coinvolta nel conflitto, mentre altri Paesi manifestano maggiore prudenza (a ragione). In virtù delle rinnovate tensioni tra Usa e Russia, degli interessi di parte portati avanti da Turchia, Paesi del Golfo e forze sciite, si avverte la necessità di un forte attore politico, equilibrato e credibile, che si sieda al tavolo con l’unico obiettivo di avviare negoziati, far tacere le armi, trovare una sintesi tra gli opposti interessi, delineare un percorso di transizione democratica per ridare un futuro di pace alla Siria. Il tutto per porre fine a questa mattanza e alla drammatica emergenza umanitaria che, come già detto, riguarda anche l’Europa. In questa guerra fredda 2.0 l’UE può giocare un ruolo determinante: non più singoli Stati tirati per la giacchetta dall’una o dall’altra parte, ma un’entità capace di percorrere autonomamente una terza via dettando la propria linea, quella della pace.