“Blues in sedici”: la città dolente torna in teatro
Al Teatro Argot Studio di Roma, è tornato “Blues in sedici”, successo letterario di Stefano Benni targato 1998 con la regia di Maurizio Panici e le musiche di Umberto Petrin e Paolo Damiani. Con lo stesso vigore di vent’anni fa, sei voci raccontano la storia di un sacrificio e portano sul palco la notte nera di una città
di Gloria Frezza
su Twitter @gloria_frezza
In tempi di profonda incertezza, non è una cattiva idea rivolgersi a ciò che in passato ha prodotto armonia ed esaltazione. La voce di Stefano Benni, che sia impiegata in un monologo o faccia da controcanto ad un’altra, è sempre stata un porto sicuro per chi vi scrive. E il Lupo (nome che gli è stato affettuosamente attribuito un po’ da chi lo segue e molto da sé stesso) non si fa mai pregare troppo quando a richiamarlo è il teatro.
In particolare però, questo è un “ritorno” in piena regola. Parliamo di Blues in sedici, letto ed interpretato da Benni insieme ad una folta compagnia attoriale al Teatro Argot Studio di Roma, sotto la regia di Maurizio Panici. Il titolo è del 1998 e racconta una storia vera, da allora fa parte della lunga schiera dei successi letterari dell’autore bolognese.
Monologo a sei voci, se così si può dire, Blues in sedici è un lamento agrodolce, una poesia lunga e struggente. La ballata della città dolente, come recita il suo sottotitolo. Edifici e strade anonime che ballano una stessa canzone, questa è la città, e dentro ci sono un Padre e una Madre (Stefano Benni e Elena Arvigo), un Figlio (Tiziano Panici), un Teschio (Dacia D’Acunto), una Ragazza (Irene Maiorino) e un Indovino (Maurizio Panici), che spartiscono equamente i passi e le parti.
Nella scena non molto altro che questi sei corpi, alle loro spalle uno schermo su cui strisciano luoghi, pioggia e un bel po’ di Mortal Kombat. Le voci sono diverse: la Madre è spenta, la giovane Lisa piena di entusiasmo, Teschio è arrabbiato, il Padre solo stanco.
Quella che raccontano è una storia breve, che sui giornali avrebbe un trafiletto remoto nella cronaca nera. “Regolamento di conti, spari in un locale, una vittima”. Questo sarebbe il tutto, eppure neanche lontanamente sufficiente. Qualcosa è successo, in quella notte nera, che ha cambiato qualche vita, sei per la precisione assoluta. Per qualche ragione, che non sfugge all’autore ed è ben resa dal regista, anche la città in una piccola parte di sé soffre un cambiamento che non saprà mai riparare.
Stefano Benni è il cantastorie del buio. Da sempre concede una voce, fisica o ideale che sia, alle storie malinconiche e ai personaggi di nicchia, che nessuno si prende mai la briga di raccontare. Blues in sedici è la versione noir di quello che è successo, dopo che l’hanno trovato, ai sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Non vogliono più spiegare, solo sfogarsi con chi li ascolterà in questa città che muore troppo lentamente.
Gli attori e le attrici, compenetrati in questa logica serenamente, sono il loro personaggio e nient’altro. Prestano ai ruoli persino i corpi, come dei burattini molto professionali. L’effetto che ne viene fuori è l’ipnosi del pubblico, impegnato in una compartecipazione quasi totale. Non c’è distrazione, nulla con cui tenersi occupati, solo il racconto crudo e virulento, come le sue voci, esposto sul palco. Lo spettatore è forzato ad ascoltare prima, a comprendere poi, a soffrire infine.
Questo “ritorno” dunque, è ancor meno casuale di quel che sembrava. I sei personaggi bussano di nuovo alla porta, vogliono parlare del sommo sacrificio. Di un uomo che ha dato la vita, perché un altro potesse conservarla, e prendersene più cura dell’ultima volta. Un esperimento felice, anche se non è il termine più adatto, e intanto il Lupo ulula alla luna.