Sul senso del Kairos e del Pathos

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Quando l’etnia o il diverso vengono sfruttati per esternare frustrazioni sociali. Quando la comunità si divide invece di unirsi. Sulla necessità di recuperare la nostra umanità, e sul fatto che, a volte, è meglio rimanere in silenzio

di Alessandra Lunetta
su Twitter @MurielMiyabi

Incredulità e sgomento. Quella zona di Centocelle la conosco bene: ho studiato al liceo classico Immanuel Kant, che sta proprio lì vicino. Spesso, nei ruggenti anni del gymnasium, si attraversava la via Casilina, si passava magari attraverso quel parcheggio, si andava a mangiare in quel centro commerciale. Certo, questo non aggiunge nulla alla tragedia che si è consumata nella notte del 10 maggio, ma come accade a noi tutti, quindi anche a me, da essere umano, quando si viene a conoscenza di un terribile evento avvenuto in un luogo che hai visto, in cui ti sei imbattuta per caso, provi – non a ragione, si intende – una maggiore empatia (dal greco “εμπαθεία”, ev + pathos, sentire dentro).

È come se passando, avessi lasciato una parte di te in quello spazio, assorbendone anche a distanza tutte le modifiche determinate dal caso, dalle calamità naturali, dalla cattiveria. Ma si tratta di un surplus, un carico di forza che rende lo schiaffo che dovrebbe arrivare in pieno volto ancora più violento; sì, perché si dovrebbe avere quantomeno un cerchio alla testa quando due bambine e una ragazza, nella tranquillità del loro sonno muoiono perché un uomo ha deciso di lanciare una molotov incendiaria e porre fine alle loro vite.

Già, un uomo, una ragazza, due bambine. Questa è la categoria, l’unica categoria che andrebbe presa in considerazione ma non è così, anche se siamo nel 2017, anche se la Storia dovrebbe essere Magistra Vitae. Invece ci troviamo qui, l’un contro l’altro armato: l’esercito della solidarietà e dell’umanità più vera da una parte, lo schieramento del “3 rom in meno” dall’altra.

Già, perché questo è ciò che è stato scritto sul muro a poca distanza dall’attacco incendiario. “Dispiace ma… se a morire sono persone rom allora un po’ se la sono meritata” (cito testualmente)”, “#Centocelle prende piede l’ipotesi della faida zingara. I sinistrati che gridavano al razzismo non hanno niente da dire sulla cultura rom?” – a cui segue – “Rom = merda, realtà incontrovertibile”. E ancora: “#Centocelle morte due bambine e una ragazza #rom in un incendio. Ai buonisti dico che non può essere permesso di vivere in 11 in un camper”, etcetera etcetera etcetera. Questi sono una parte dei commenti rilasciati con nonchalance (e temo anche con un pizzico di fierezza e orgoglio) dagli utenti Twitter, perdendosi fortunatamente nell’altrettanto grande mare magnum dei messaggi di solidarietà. Molti sono infatti coloro che hanno portato un fiore, che si sono fermati anche solo per un attimo, che hanno lasciato un biglietto, che hanno provato “compassione” (dal latino cum patior, patire insieme), che hanno compreso che Elisabeth, Francesca ed Angelica sono vittime dell’insensatezza umana né più né meno di altri.

Certo, non si può provare simpatia (dal greco συμπάθεια, sympatheia, parola composta da συν + πάσχω = συμπάσχω, letteralmente “patire insieme”, “provare emozioni con…”) per tutti, un pronome indefinito che deve essere inteso però non nella globalità di un insieme, di un gruppo, anzi, di un label, un’etichetta, ma nella trasversalità della singolarità umana. Si tratta di un concetto semplice, per non dire banale, che evidentemente alla luce dei fatti deve essere ribadito, con forza. Prima di concludere voglio raccontare un piccolo aneddoto: ero affacciata dal balcone (sì, come le persone di veneranda età, peccato non ci siano cantieri sotto casa), e mi sono resa conto che una donna rom era intenta, sotto il primo sole di mezzogiorno di maggio, a pulire tutta la via dall’immondizia che noi civilissimi cittadini non abbiamo avuto cura di provare a infilare nei cassonetti (quelli che non erano già stracolmi ovviamente. Ma questa è un’altra storia). Incredibile dictu: mi rendo conto di aver distrutto buona parte dell’immaginario collettivo, ma non stava rubando, né sporcando, né rapendo bambini.

In queste righe ho utilizzato varie volte termini di etimologia greca, tutti aventi la stessa radice, πάϑος, soffrire, provare emozioni intense, ossia essere umani. Se non riusciamo “a patire con” gli altri dovremmo quanto meno provare a interiorizzare la sofferenza altrui. E soprattutto, qualora non si riuscisse proprio a “non viver come bruti” almeno si deve avere – come ripeteva sempre la mia professoressa di greco – “il senso del καιρόςossia il senso “del momento giusto, opportuno”: in breve, anche se la tragedia si sta rendendo sempre più evanescente agli occhi del popolo della rete, occorrerebbe rimanere in silenzio, invece di continuare a declamare frasi prive di empatia, prive di simpatia, prive di compassione, prive di senso del καιρός.

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