In Turchia la scure governativa si abbatte anche sulle ONG
A poco meno di un anno dal fallito colpo di stato, la stretta del Governo sui diritti civili e politici si fa sempre più forte. Solo al comando, Erdoğan non risparmia nemmeno le ONG. In seguito all’arresto di Taner Kiliç, presidente di Amnesty International in Turchia, abbiamo intervistato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana dell’associazione umanitaria
di Mattia Bagnato
su Twitter @bagnato_mattia
Quando Gabriele Del Grande scoprì, con sua immensa sorpresa, che Taner Kiliç sarebbe stato il suo avvocato difensore sembra abbia tirato un bel sospiro di sollievo. Sicuro, che la vicenda che lo riguardava si sarebbe conclusa nel miglior dei modi. Mai, però, avrebbe pensato che di lì a poco il presidente di Amnesty International in Turchia si sarebbe trovato dalla parte opposta. Imprigionato dentro ad un cella buia e umida. Accusato di non si sa bene cosa, costretto a dover chiedere scusa per il solo fatto di difendere la libertà. È successo, però. O meglio, sta succedendo proprio adesso. Non in qualche lontano failed state, come si dice in inglese, ma a due passi da noi. In un Paese, da sempre considerato baluardo della democrazia nella sponda sud del mediterraneo.
Le storie di Del Grande e di Kiliç sono molto diverse tra loro, ma non troppo. Il primo, giornalista e documentarista, era stato arrestato nella provincia di Hatay, al confine con la Siria, mentre svolgeva il suo lavoro perché sprovvisto del necessario permesso stampa. L’altro, Taner Kiliç, è un avvocato turco che da sempre si occupa di diritti umani e dal 2014 è stato presidente di Amnesty International Turchia. Quello che accumuna le loro storie, oltre al fatto di essere in prima linea nella difesa dei più deboli, è il contesto in cui si sono trovati a svolgere il lavoro.
Cioè, quello di un Paese, la Turchia, ricco di storia e cultura affetto, ultimamente, da un preoccupante deficit di democrazia. Ostaggio di un Presidente, Recep Tayyip Erdoğan, sempre più solo al comando e sempre meno disposto a condividere il potere con gli altri, come democrazia vorrebbe. Un paese dove, da qualche mese a questa parte, gli oppositori vengono marchiati con il timbro di traditori, incarcerati e torturati. Dove il dissenso è considerato oltraggioso e può costare caro. In cui lo stato d’emergenza, ormai, perenne, non ha fatto altro che sopprimere le più basilari libertà civili e politiche e i diritti umani, allontanandolo da quel sogno europeo di cui sembrava poter essere parte.
Per questo l’arresto di Taner Kiliç, avvenuto come riferisce a Ghigliottina Riccardo Noury, presidente di Amnesty International Italia, all’alba di 3 giorni fa nella sua abitazione di Smirne, è sembrata a tutti la classica goccia che fa traboccare il vaso. L’ultimo atto di forza di un uomo isolato e che, dopo il fallito golpe, vede nemici dappertutto: “Se non fosse altro, perché insieme a Kiliç sono stati arrestati altri 22 avvocati per i diritti umani. Destinati ad infoltire le file dei 40.000 detenuti in custodia processuale e degli oltre 100.000 licenziamenti tra professori, dipendenti pubblici e giornalisti”. Tutto questo, all’insegna di una vera e propria purga generalizzata di dimensioni epocali.
Ad oggi, ci spiega ancora Noury, “non sono state mosse accuse specifiche nei confronti Taner Kiliç, se non un generalizzato riferimento al Movimento di Fethullah Gülen. Leader ed ideatore dell’improvvisato colpo di stato del 2016 e subito sventato dagli agenti della sicurezza turca. L’arresto di Kiliç non avrebbe nulla a che vedere con l’attività svolta dall’ONG nel Paese, che ad onor del vero sono gestite direttamente da Amnesty International”. Il portavoce di Amnesty Italia, tuttavia, non si sente di escluderlo. In fondo Kiliç, spiega, aveva preso posizione nei confronti di quanto sta accadendo in Turchia poco prima del golpe. Un dubbio che sembra farsi certezza. Secondo il rapporto annuale 2016/2017 della stessa ONG (p. 496), infatti, questa eventualità sarebbe rafforzata dalle accuse di appartenenza all’ “Organizzazione terroristica Fetö”, che la stessa aveva già ricevuto inseguito ad una pubblicazione su comprovati casi di tortura e maltrattamenti, poi confermati anche da Human Rights Watch.
“I pessimi rapporti tra il Governo turco e Amnesty International sarebbero davanti agli occhi di tutti”, aggiunge Noury, “inseribili nella tipica dialettica tra governativo e non governativo. E si resta sbigottiti, però, sul fatto che “non venga data la possibilità di manifestare davanti all’ambasciata turca a Roma”.
Amnesty International è solo l’ultima tra le ONG bersaglio del governo turco, però. A novembre, sempre secondo il loro ultimo rapporto (p. 494) almeno 375 organizzazioni non governative sono state chiuse. Tra questi, molti gruppi per i diritti delle donne, associazioni di avvocati e organizzazioni umanitarie non si sono viste rinnovare il permesso per svolgere attività nel Paese. “Un giro di vite orchestrato per minare il dissenso globale”, che a detta di Noury, “fa eco quanto sta accadendo anche in altri Paesi, come Russia ed Egitto, ma a questo elenco potremmo aggiungere anche l’Italia. Le aspre polemiche, infatti, sull’operato delle ONG al largo delle coste italiane accusate di lucrare sugli sbarchi ne è la prova.
Tornando alla Turchia, secondo molti osservatori internazionali le misure restrittive adottate nei confronti delle ONG dal 2016, compreso l’obbligo alla registrazione, sarebbe la “naturale” conseguenza di una sempre maggiore diffidenza da parte del Governo nei riguardi di Organizzazione che non comprende e di cui non si fida affatto. Da qui, anche gli stringenti controlli sui permessi di lavoro degli operatori umanitari. Molti, infatti, giurano che l’esecutivo starebbe cercando di sostituirsi alle ONG internazionali, ampliando da un lato i finanziamenti per la Mezzaluna Rossa e l’Afad. Dall’altro, invece, favorendo l’attività di organizzazione come Diyanet o l’IHH di cui Erdoğan si fida molto di più in quanto condividono gli stessi principi ideologi e religiosi.
Congetture per il momento. Quel che è certo, conclude Riccardo Noury nell’intervista che ci ha rilascito, “è la montante preoccupazione da parte del Governo per tutte quelle ONG che operato nelle zone a maggioranza curda al confine Siriano. Dove, secondo Amnesty International, sarebbe impossibile accedere nonostante la grave situazione umanitaria e gli oltre 500.000 sfollati che le operazioni contro il PKK avrebbe causato”. Il tutto nel completo e colpevole silenzio da parte della Comunità internazionale, convinta probabilmente che l’alleato turco sia indispensabile nell’interminabile guerra contro il Califfato nero dell’autoproclamato Stato Islamico.