Turchia, la lunga marcia per la giustizia che fa vacillare il Sultano
Da Ankara fino a Istanbul, percorrendo quasi 500 km a piedi. A pochi mesi dal referendum costituzionale, il popolo turco anti Erdogan prova a rialzare la testa
di Mattia Bagnato
su Twitter @bagnato_mattia
Nella storia dell’umanità, la strada verso la giustizia sociale è stata segnata da lunghe ed interminabili marce. Maree umane, in cammino verso il definitivo riconoscimento dei loro diritti e delle loro istanze. È stato così per Gandhi e la sua Marcia del sale del 1930: 320 km per ribellarsi pacificamente all’ingerenza del governo di Sua Maestà nel continente indiano. Per giorni e giorni i neri d’America marciarono da Selma a Montgomery per ottenere quelle libertà civili che per centinaia d’anni gli furono negate. Recentemente ha scelto di farlo anche il popolo turco. Un ultimo, estremo, tentativo di protesta contro un potere che a detta di molti sta sovvertendo l’ordine democratico di un paese considerato da sempre l’unico baluardo di libertà nella sponda opposta del mediterraneo.
In marcia contro l’ingiustizia – Era il 15 giugno scorso, al parco Guven di Ankara c’erano poche centinaia di persone. Tra le mani, alte sopra la testa, tenevano dei cartelli rossi con la scritta: Adalet (giustizia). Tra loro, Kemal Kilicdaroglu il leader del CHP – principale partito d’opposizione. Il piano “rivoluzionario” elaborato da colui che è già stato ribattezzato il Gandhi turco, semplice quanto ambizioso: marciare per quasi 500 km, cercando di raggiungere il luogo di detenzione del suo compagno e collega di partito Enis Berberoglu – condannato a 25 anni di carcere per aver rivelato importanti segreti di stato ad alcuni giornalisti.
Un golpe fallito o un golpe riuscito? – L’arrivo a Maltepe era previsto per il 9 giugno, una data simbolica per le centinaia di migliaia di turchi che lungo il cammino si sono sommate alla marcia fino a formare un’enorme serpentone di slogan e bandiere come non si vedeva da anni in Turchia. Il 15 luglio si celebrerà il primo anniversario di quel tentato golpe che, indiscutibilmente, ha scritto una nuova pagina della storia recente turca. Un anno nel quale sono stati arrestati circa 50.000 “sovversivi” e 110.000 di essi sono stati licenziati o epurati, come dir si voglia. Rimangono forti dubbi sugli artefici di quella ridicola messa in scena durata poche ore.
Due cose, tuttavia, sembrano certe. La prima è che a ordire quel tentativo di colpo di stato non fu direttamente Gulem: secondo l’Intecen, difatti, i responsabili dovrebbero essere ricercati tra gli oppositori interni al regime stesso – militari, soprattutto, ma anche gulenisti, kemalisti e membri dell’AKP scontenti della leggerezza con cui il Governo stava affrontando la minaccia del PKK tra il 2013 e il 2015 e, dunque, di un’invasione via terra della Siria. La seconda considerazione, invece, è che da quel giorno Erdogan è più forte e più sicuro che mai.
Il venditore di limonata si è fatto grande – L’ennesima prova dell’arrogante sicurezza di Erdogan sta tutta in quella mastodontica struttura costruita per essere utilizzata come nuova sede presidenziale: un edificio 30 volte più grande della casa bianca e 4 volte la reggia Versailles, costata 615 milioni di dollari – megalomania tipica di autocrati e semi-dittatori del suo stesso calibro. Sono lontani, infatti, gli anni in cui Recep Tayyp vendeva limonata a bordi delle strade di Istanbul, dove il padre guardia costa si era trasferito quando il figlio aveva 13 anni. Dalla laurea in Managment passando per la carica di Sindaco, fino alla condanna a 10 mesi per aver letto in pubblico poemi islamici dai toni un po’ troppo “coloriti”, la carriera politica del nuovo “Sultano” è stata una lenta ma inesorabile ascesa.
O con me o contro di me – In molti, nel corso di questi 10 anni, hanno provato a mettere in discussione la leadership di Recep Tayyp Erdogan. L’ultimo, ma non in ordine d’importanza, fu proprio Fethullah Gulem – prima amico fraterno e oggi, invece, nemico dichiarato. La minaccia incarnata dal predicatore sunnita, esiliatosi volontariamente negli Stati Uniti già prima del ‘99, è valsa al suo gruppo di seguaci addirittura un acronimo specifico: FETO (Organizzazione Terroristica di Fethullah). Ad incrinarne il rapporto, all’apparenza idillico, fu in primis la crescente influenza di Gulem nell’establishment turco. Militari, politici e accademici, tutti pendevano dalle sue labbra. La goccia che, però, ha fatto traboccare il vaso arriva solo nel 2013: le accuse di corruzione mosse contro i vertici dell’AKP suonarono, infatti, come il più vile dei tradimenti.
Alla radice del “Erdoganismo” – Gulem, va detto, per anni è stato il braccio destro di Erdogan. Ispiratore e mentore di un’ideologia politica contradditoria, come disse il deputato repubblicano Aykan Erdemir:“Finge d’includere le masse ma, al tempo stesso, le priva di ogni ruolo politico. Che sbandiera principi etici, per poi soffocarli con un pragmatismo duro e puro. Forte della convinzione, che oggi come allora, sia ancora in voga il principio del dividi et impera nella società turca”. Chiedere alla comunità curda per conferma, asso nella manica buono per tutte le stagioni.
Il nuovo all’orizzonte – Adesso, dopo l’imponente Adalet Yurutusu (marcia per la giustizia) che ha riempito le strade di mezza Turchia, è il turno di Kemal “Gandhi” Kilicdaroglu. Il guanto di sfida è stato lanciato, così come l’investitura ufficiale. Direttamente da quella folla oceanica che lo attendeva festante, al centro di Istanbul, domenica 9 luglio. Sono molti, infatti, a giurare che nessuno meglio di lui possa intercettare le preferenze di quanti temono la deriva autoritaria del paese. Lui, uomo dal curriculum impeccabile: già a capo del Ministero delle Finanze e vicepresidente dell’Internazionale socialista.
Non è tutto oro quel che luccica – In molti ricorderanno che prima di Kemal Kilicdaroglu il CHP era un “partitino” salito alla ribalta grazie al modo di fare del suo leader – a metà tra uno zelante funzionario di partito e un intransigente uomo senza macchia alcuna. Voci discordanti ritengono invece il Partito Popolare Repubblicano incapace di rinnovarsi e, dunque, allargare la propria platea di sostenitori. Anzi: il pricipale partito d’opposizione ha più volte teso la mano all’AKP in Parlamento – come quando, incredibilmente, ha deciso di votare a favore dell’eliminazione dell’immunità parlamentare.