Wayne Rooney: homecoming
Wayne Rooney che lascia il Manchester United dopo tredici anni per tornare all’Everton, sua prima grande casa calcistica, è una di quelle storie romantiche che il mondo del pallone ogni tanto riesce ancora a raccontare
Quel che è stato non si dimentica.
In un periodo di contratti ultra milionari e premature fughe in Paesi lontani (dal calcio che conta) da parte di campioni che ancora hanno tanto da dire, la scelta di Wayne (contratto biennale con i Toffees dopo i tredici anni e i 253 gol con il Manchester United) fa sorridere la gente e battere diverse paia di mani nel mondo dello sport, perché dimostra che nonostante la gloria e le coppe vinte negli anni, è sempre rimasto il ragazzino lentigginoso di sempre.
Il club di Liverpool lo scelse all’età di nove anni credendo nelle sue capacità, facendolo esordire in Premier League nella stagione 2002/2003 all’età di sedici anni e di lì a due anni il ragazzino incanterà il Paese con le sue giocate, lo strapotere fisico (da chi ha giocato a rugby in tenera età) e i suoi gol, tanto che nel breve viene incoronato nuovo Wonderboy, dovuto passaggio di consegna dal titolare di soprannome, Michael Owen che nel frattempo era divenuto una colonna portante dell’Inghilterra di Sven Goran Eriksson. E proprio al fianco di Owen, il ragazzino lentigginoso e dai capelli rossi, esordirà in nazionale il 12 febbraio 2003 a soli diciassette anni e mezzo, il primo gol arriverà a settembre contro la Macedonia.
In lui erano riposte tutte le speranze dell’Inghilterra che sbarcava in Portogallo per vincere l’Europeo 2004; tutti gli occhi del mondo erano sul posati su quel giovane talento che fece di quel torneo la sua migliore vetrina internazionale: quattro presenze, quattro gol con Svizzera e Croazia.
Un terminale offensivo perfetto da inglobare in una squadra dove Lampard e Gerrard facevano da diga, Beckham regalava assist mai visti prima e Owen segnava in tutte le maniere possibili. L’infortunio durante il quarto di finale con i padroni di casa gli nega la possibilità di battere uno dei rigori finali e di poter aiutare i suoi ad approdare in semifinale; stesso identico discorso si potrà fare per i Mondiali in Germania due anni dopo: quarti di finale contro Cristiano Ronaldo e soci, altro problema fisico durante il match, stesso risultato finale ai rigori.
Ma il ragazzo cresce, si forma, impara, migliora e nel 2004 indossa la maglia rossa della città di Manchester, lì incontrerà l’uomo che (come per molti altri giocatori) diventerà l’unico grande farò della sua vita calcistica, Sir Alex Ferguson.
Con lo scozzese in panchina, negli anni, Wayne diventa il giocatore ideale e pedina tatticamente imprescindibile del gioco dei Red Devils, segna in ogni modo e da ogni posizione, anche di testa, molto spesso, grazie a una poderosa elevazione, ricoprendo praticamente ogni ruolo di movimento del rettangolo verde: punta, mezza punta, ala, regista, perfino terzino nella stagione cult in cui senza mai lamentarsi della cosa ricoprirà il ruolo di esterno mentre Ronaldo faceva sfaceli lì davanti. Rooney era divenuto un giocatore devastante, incubo di tutte le difese d’Europa; in Champions League partecipa allo storico 7-1 inflitto alla Roma all’Old Trafford e segna la rete “tagliagambe” del 3-2 all’ultimo secondo della semifinale 2006/2007 contro il Milan, rete che non basterà ai Red Devils per passare il turno visto poi il ciclone (non solo atmosferico) che si abbatterà su di loro al ritorno a Milano.
L’anno successivo è quello da incorniciare, quando dopo aver vinto la Premier League, con il suo Manchester United batte in una drammatica finale di Champions il Chelsea ai rigori dopo lo scivolone di John Terry sotto il diluvio di Mosca. Con il Mondiale per Club (suo il 3-2 in finale contro Quito) del dicembre successivo incornicia la migliore stagione con la maglia del Man United, mentre l’anno successivo sfiora la doppietta in Champions piegandosi nella finale di Roma davanti alla nuova avanguardia del calcio totale 2.0, il Barcellona di Pep Guardiola.
Negli anni il ragazzo cresce, matura, si fa uomo e con lui cresce anche la stima e l’affetto che la tifoseria dell’Old Trafford ha per lui. Un idolo assoluto che, nonostante le sirene di lidi ben più competitivi, non ha mai lasciato la propria casa. Sono passati da Manchester Cristiano Ronaldo e Ruud Van Nistelrooj, sono arrivati Ibrahimovic e Martial ma Wayne è sempre rimasto lì a dettare calcio tra un assist impossibile e una rovesciata perfetta che inevitabilmente rimarrà nella storia del calcio inglese e non (se poi accade in casa nel derby con il Manchester City…).
E l’ambiente che maggiormente mostra il suo cambiamento e la sua maturazione è, come spesso avviene, la Nazionale: dopo le disfatte degli Europei 2008 e i Mondiali 2010 con Fabio Capello alla guida tecnica, gioca un buon Europeo 2012 in Polonia e Ucraina approdando ai quarti di finale contro l’Italia e perdendo più contro quella maledizione inglese dei rigori (o cattiva preparazione tattica) che con la futura finalista del torneo.
Altro suicidio nel girone del 2014 in Brasile e ultimo canto del cigno in Francia, nell’Europeo 2016 quando la brutta figura sui tabloid inglesi, arriva sotto forma di una splendida Islanda, sorpresa di quel torneo. Wayne si batte, lotta, tenta e subisce l’ennesima eliminazione, relegato in una squadra troppo debole per lui, ma che si è preso sulle spalle facendo da guida per i giovanissimi che la compongono; e chi c’era dieci anni prima, quando era lui il ragazzino talentuoso guidato dai senatori, avrà abbozzato un sorriso amaro ma compiaciuto.
Tipo fumantino fuori dal campo ma perfetto esempio da professionista quando gioca, anche quando nell’ultima stagione, con Jose Mourinho in panchina, ha perso il posto da titolare divenendo il famoso dodicesimo uomo che entra a partita in corso. Così tra un cambio con Martial e uno scambio con Ibra ha vinto l’Europa League con cui va a impreziosire il suo già sontuoso Palmares:
53 reti in Nazionale che lo incoronano miglior marcatore di sempre dell’Inghilterra, calciatore ad aver segnato di più in Premier League con la stessa maglia (Manchester United), 183 reti, e in tutte le competizioni ufficiali (253 superando Sir Bobby Charlton), quattro Coppe di lega inglese, cinque campionati inglesi, sei Community Shield, una Coppa d’Inghilterra, una Champions League, un Mondiale per Club e, per l’appunto, l’Europa League contro l’Ajax.
Visto l’arrivo di Lukaku all’Old Trafford il ragazzo lentigginoso ha capito che lo spazio sul palco per lui si faceva sempre più ridotto e allora ecco l’idea: tornare a casa, tornare al primo amore, alla prima famiglia che ha creduto in lui, magari per ricambiare quella fiducia che molti anni prima avevano riposto in un bambino di nove anni, un po’ come LeBron James ha fatto con i Cleveland Cavaliers o Juan Manuel Riquelme ha fatto con il Boca Juniors, tornando a casa o come si usa dire in questi giorni Homecoming.