Da Womanhood a Freeda: quando la femminilità travalica ogni confine
Un’antropologa francese di origine algerina e il suo progetto Womanhood, dove prendono la parola 15 donne egiziane. Freeda, agenzia di media/stampa di Milano esclusivamente al femminile attiva sui social network dove le donne sono libere di esprimersi. Due casi, due Paesi, una sottile linea rossa: la femminilità, anche senza militanza, universale e senza confini, e una telecamera
“C” come contesto. Egitto, Piazza Tahrir, 25 gennaio 2011. Migliaia di donne hanno marciato accanto agli uomini per dire basta al regime del presidente Hosni Mubarak, sulla scia della “rivoluzione del gelsomino” tunisina. Il raìs, al 18° giorno di protesta, e dopo le pressioni della Casa Bianca, rassegna le dimissioni.
L’Egitto viene di fatto lasciato nelle mani delle forze armate, innescando manifestazioni di giubilo ed entusiasmo in milioni di persone, stanche della corruzione dei vertici e soprattutto di tutte le regole anacronistiche e obsolete a cui erano sottoposte.
E le donne? Quali sono state le conquiste, fittizie e reali allo stesso tempo, delle donne egiziane? Passiamole in rassegna velocemente.
Le donne ottennero i diritti politici basilari solo con l’articolo 73 della Costituzione, promulgata nel 1956; un passo in avanti si ottenne con la legge 21/1979 che assegnava almeno 30 seggi alle donne per ogni governatorato. Tra quote rosa messe e tolte, sta di fatto che una e una sola forza politica è andata sempre al potere, il Partito Nazional Democratico (PND), per lo meno fino “a Piazza Tahrir”.
Sta di fatto che secondo gli economisti, la discriminazione femminile è costata all’Egitto oltre 70 miliardi di sterline egiziane l’anno, pari a 11,6 miliardi di dollari, una perdita dettata dal mancato contributo della forza lavoro delle donne dipendente dalla diminuzione del livello di istruzione e scolarizzazione.
Inoltre, malgrado gli emendamenti approvati dal governo, tra cui quello che ha reso possibile il ḫul‘ (iniziativa di divorzio da parte della donna), le donne egiziane devono affrontare molti altri carichi onerosi, dalle mutilazioni genitali femminili ai matrimoni precoci, ai maltrattamenti fisici, fardello in comune, purtroppo, con le donne di tutto il mondo, ipocrisie a parte.
Questi sono i dati, come quelli enumerati per orientarsi nel progetto di cui vi stiamo per parlare, in una timeline, una semplice guida per tenere fermi alcuni eventi importanti, imprescindibili; per il resto, la vita, la cultura, la pastosità del mondo vissuto, le sensazioni ci sono donate da 15 donne egiziane, dalle loro parole, dal loro alfabeto. In una parola Womanhood.
“W” come Womanhood. Womanhood, Femminilità, questo il progetto della giovane antropologa e regista francese di origine algerina Florie Bavard: un documentario interattivo, con pochi punti fissi: 75 parole chiave sul gender – inteso come l’appartenenza al genere dal punto di vista culturale e non biologico – raggruppate in ordine alfabetico, una telecamera, nessun effetto speciale, nessun team, solo Florie e 15 donne egiziane, incontrate singolarmente, nelle loro case, nei loro posti di lavoro, dai loro amici, tra Doqqi, Shubra, Downtown, Mohandessin, Zamalek, quartieri de Il Cairo, fino a Parigi.
“OK. This is when I get really angry. I’m Egyptian, and I’m a woman. I have been engaged in the political process, if we can say so. Definitely, after 2011 or during 2011. And the amount of questions, and interviews, and discussions I’ve been asked, about being a woman, in Egypt, about the Revolution, is completely ridiculous, absurd and ignorant”. Sally, Il Cairo, 2015
“Ok, Questo avviene quando sono molto arrabbiata. Sono egiziana e sono una donna. Sono impegnata nella costruzione del processo politico, se così si può dire. Senza dubbio durante o comunque a partire dal 2011. E la grande quantità di domande, interviste a cui ho risposto sull’essere una donna, in Egitto, dopo la Rivoluzione, è completamente ridicola, assurda e ignorante“.
Questo è quanto dichiarato, nel 2015, da Sally Zohney, attivista, ricercatrice, scrittrice per the BuSSy Project, blog che affronta tabù sociali, che focalizza la propria attenzione agli emarginati, all’educazione sessuale. Sally è solo una delle protagoniste della nostra storia, 15 donne dai 20 agli 83 anni, tutte famose a livello internazionale o comunque personalità apprezzate e riconosciute nei loro territori: una psichiatra, un’attrice, blogger, attiviste impegnate nella difesa dei diritti delle donne, scrittrici, artiste.
La libertà di espressione è il requisito fondamentale dell’intervista: non ci sono limiti, né domande dirette: scelgono una parola, la raccontano, ognuna a suo modo (i video, per un totale di 7 ore di filmati, vanno dai due ai 18 minuti, ovviamente a seconda del ritmo e dello stile narrativo di ognuna); successivamente, associano un’altra parola della lista, creando un vero e proprio campo semantico. Questo è ciò che viene loro richiesto, questo, è ciò che coloro che navigano sul sito sono invitati a fare: scegliere una parola, ascoltare, immergersi nella biblioteca di Babele di racconti personali, sensazioni e mondi interiori.
Il sito è arricchito, come anticipato precedentemente, da una timeline con gli eventi fondamentali che hanno segnato il cammino delle donne nel 20° secolo, dalle biografie delle 15 partecipanti al progetto, da una bibliografia; da non dimenticare che le conversazioni sono state condotte in lingua inglese per agevolare la diffusione dell’iniziativa, mentre l'”ABC” documentario è bilingue, scritto in inglese e arabo.
“F” come Freeda. “Let your mind go, let yourself be free, Oh, freedom (freedom), freedom (freedom) […] cantava un’irrefrenabile Aretha Franklin nella commedia musicale “The Blues Brothers”: chissà se la redazione di Freeda aveva in testa questa canzone quando ha elaborato la sua idea editoriale.
Di sicuro, come si legge da Facebook, Freeda è la declinazione di Freedom al femminile: “Non esiste un solo tipo di donna, Freeda è un progetto editoriale che celebra la libertà e i tanti modi di essere di una nuova generazione di donne. Per questo cerchiamo continuamente donne vere, tutte diverse, con una storia da raccontare“.
Infatti, sulle informazioni della pagina del social network di Mark Zuckerberg, ci sono tutti i recapiti e gli indirizzi e-mail per poter collaborare, ma soprattutto per potersi raccontare ed esprimere, in totale libertà, senza indicazioni di sorta, semplicemente portando se stesse di fronte alla telecamera e alla redazione: numerosi sono i “video casting” con giovani donne che si espongono davanti all’obiettivo affrontando i temi più disparati.
Le ragazze di Freeda li raccolgono sotto il label “Vox pop“, dando, appunto, voce a ciò che si prova o a come ci si pone, ad esempio, in merito alla paura, al sentirsi libere, alla banale routine mattutina. Ai video, che ritraggono anche personalità femminili che hanno fatto la storia, o icone dei nostri giorni, più o meno “pop”, si alternano articoli, doodle, chatting, il tutto con una grafica accattivante, con un stile fresco e nuovo. La leggerezza è al servizio del quotidiano e del reale, senza per questo togliere senso e sostanza alle protagoniste femminili così come ai contenuti (impagabili le chat della Spinelli, NdR).
“F” come femminilità. Procedendo questa volta dalle Piramidi alle Alpi – che il Manzoni ci perdoni -, abbiamo scoperto e analizzato due progetti, all’apparenza molto diversi, ma che in realtà hanno molto in comune: il raccontare la femminilità aldilà di ogni pregiudizio o visione etnocentrica del mondo, lasciando che la cultura e il background di ognuna delle donne e ragazze che si sono prestate al gioco, trapeli dalle loro parole, senza sovrastrutture ideologiche di senso, attraverso un medium efficace, coinvolgente e d’impatto.
L’approccio antropologico si rivela vincente e, come direbbe Giovanni Verga, “l’opera deve sembrare essersi fatta da sé”: non siamo parlando di alta letteratura, ma la spontaneità che si ha in Womanhood e in Freeda è ineguagliabile: colpisce particolarmente Nawal al-Saadawi, che nel trailer del progetto dell’antropologa (il video è qualche paragrafo più su), scegliendo la parola “Challenge”, dice:
“Challenge, I love myself when I challenge, I hate myself when I not challenge. I challenge everything in my life, every each”.
“Sfida, amo me stessa quando mi sfido, odio me stessa quando non mi metto alla prova. Ho sfidato qualsiasi cosa nella mia vita, qualsiasi”.
Concludiamo con le parole di Florie Bavard: “Questo progetto è rivolto a tutte quelle persone che in un modo o nell’altro si sono dedicate nella loro vita alle tematiche di genere e non solo al tema del femminismo perché se non tutte le donne si identificano con questa parola, altre invece non sentono l’esigenza di fare militanza. Ecco allora perché la femminilità si addice di più al progetto proprio perché è in grado di abbracciare più vite e più visioni di vita”. Si è donne sempre, ognuna con le proprie peculiarità: guardate a fondo in questi caleidoscopi di vite e immagini, non ve ne pentirete.