“Dunkirk” di Christopher Nolan: un ticchettio costante verso la salvezza
In Dunkirk, film sulla storica battaglia di Dunkerque raccontata dal regista di “Interstellar”, si intersecano tre linee narrative, tre elementi naturali in cui immergersi al ritmo sincopato della sopravvivenza
Se c’è una cosa che non manca mai dopo la visione di un film di Christopher Nolan è quella sensazione aleatoria ma persistente di qualcosa che non manca ma sfugge allo spettatore, qualcosa che il regista ha posato tra una scena e l’altra, tra uno sguardo e un’impennata della colonna sonora e che prima o poi salterà fuori ma che, al momento dei titoli di coda, ci farà rimanere a pensare senza sapere bene a cosa. “Dunkirk” non fa eccezione.
La storia è quella della settimana compresa tra il 29 maggio e il 4 giugno 1940: dopo aver violato della neutralità di Belgio, Olanda e Lussemburgo, le truppe tedesche spingono verso il mare i reparti francesi e belgi e l’intero corpo armato inglese, che si trovano ingabbiati e in balia dei bombardamenti aerei.
Una settimana, tre diverse linee narrative, alle quali Nolan dà un titolo e una durata: il molo (una settimana, 29 maggio – 4 giugno), il mare (un giorno), il cielo (un’ora).
Terra, acqua e aria. Tre elementi di base per tre piani narrativi che partono separatamente e che si intrecciano gradualmente, fino a sovrapporsi, così come i protagonisti che vi sono immersi.
In questo modo Nolan riesce a mostrare contemporaneamente l’azione delle truppe e il contributo dell’aeronautica e dei civili che hanno messo le proprie imbarcazioni private a disposizione della marina britannica.
Tutto è vincolato al tempo, l’altro nemico che incombe su “Dunkirk” e contro il quale non è per niente semplice prevalere.
Il ticchettio ansiogeno della lotta tra tempo e speranza di sopravvivenza emerge delicatamente dalla colonna sonora ancora un volta affidata al compositore tedesco Hans Zimmer – già fidato collaboratore di Nolan in “Batman Begins” (2005), “Il cavaliere oscuro” (2008), “Inception” (2010), “Il cavaliere oscuro – Il ritorno” (2012), e
“Interstellar” (2014) – ed entra subdolamente nelle scene e nella testa dello spettatore fino ad esplodere.
La narrazione alterna momenti frenetici sottolineati da rapidi cambi d’immagine e dalle note sincopate della colonna sonora a scene più statiche, quasi lente. In realtà è proprio attraverso lo svolgimento cadenzato degli eventi che Nolan riesce a trasmettere ogni singola esperienza emotiva, ogni sfumatura dell’umanità dei personaggi.
Ben oltre una semplicistica narrazione storica, è sullo sguardo di ogni singolo personaggio che si concentra l’intero film, sia in senso figurato che fisico: è lo sguardo di Mr. Dawson (Mark Rylance) a far capire al figlio Peter (Tom Glynn-Carney) di aver agito bene, sono gli occhi di Tommy (Fionn Whitehead) e Gibson (Aneurin Barnard) a comunicare la nascita estemporanea di una fratellanza che li accompagnerà fino alla fine, è la mimica facciale del volto coperto di un inconfondibile Tom Hardy a conferire carattere al pilota Farrier.
Saranno questi e altri sguardi, come in un immenso puzzle, a ricostruire la storia della battaglia di Dunkerque e a dare vita al film stesso.
Anche per questa ragione i dialoghi non sono il fulcro di “Dunkirk”.
Scarseggiano? Assolutamente no. In realtà sono giusti, né molti né pochi. Di sicuro non ci può aspettare un trattato di epistemologia da un film che ha come intento principe quello di mostrare un episodio storico.
È ovvio che Nolan abbia scelto di lasciare la parola alle immagini e alle azioni in medias res, ma anche alle ‘non azioni’ di molti personaggi: ai loro sguardi, ai loro silenzi, al loro fiato sospeso.
Insomma, se di sicuro siamo di fronte a un Nolan diverso, meno sorprendente forse, che non riesce coinvolgere e sconvolgere come in “Inception” o in “Interstellar”, a prendere in ostaggio l’emotività dello spettatore durante e dopo la visione, c’è da dire che “Dunkirk“ non è il solito film di guerra e va visto anche attraverso il filtro emotivo di quel perenne ticchettio verso la salvezza.
Ed è qui che si ritrova la firma del regista, in quell’eccitante connubio tra ritmo da film d’azione e umanità. In questo caso, l’umanità di un antieroismo, di una sopravvivenza vissuta come una colpa dai soldati, eppure così preziosa.