Storie di parole | Capriccio: dalla paura all’arte
Nei secoli il termine “capriccio” ha attraversato campi semantici e confini nazionali, mantenendo un solo caposaldo: l’irrazionalità
La prima definizione che ci viene in mente pensando alla parola capriccio è senz’altro quella di ‘voglia improvvisa, ostinata, tendenzialmente di breve durata’: un desiderio improvviso quindi, che ha generalmente come obiettivo qualcosa di non necessario, di evitabile e perciò connotato negativamente.
A questo significato si collega la comunissima locuzione “fare i capricci” che (per sventura di madri e padri) sentiamo pronunciare o pronunciamo quotidianamente in riferimento ad uno dei passatempi preferiti dai bambini.
Ma questo termine ha sempre indicato comportamenti negativi? Se rimaniamo nella sfera dei sentimenti, la risposta è sì.
Di fatto, il primo significato con cui la parola è attestata in italiano (nel rimatore toscano Bono Giamboni, 1292) è quello di ‘ribrezzo, brivido di paura’, simile quindi al valore di raccapriccio, che ha mantenuto questo significato, da cui si è poi sviluppato il verbo raccapricciare (sia intransitivo: ‘inorridire’, che transitivo: ‘spaventare’, oltre a ‘provare raccapriccio’).
Lo stesso non è invece accaduto per la nostra parola (che deve ricorrere a forme analitiche): uno dei tanti capricci della lingua! Sul collegamento semantico tra desiderio e paura, come sull’origine etimologica sull’origine della parola, non si è ancora giunti ad una soluzione definitiva.
Esulando dalla sfera emotiva, possiamo ricordare un altro àmbito in cui il termine ha avuto forse ancora più successo, quello artistico. Sia nelle arti figurative che nella musica, con capriccio si indica infatti, già nel XVI secolo, un’opera o un componimento di forma libera, varia, originale, in cui si dà libero sfogo alla fantasia.
In architettura si fa riferimento con questo termine ad un edificio costruito più per fini estetici che pratici, volto a colpire e a svettare con le sue linee volutamente strambe.
Nella pittura, il capriccio è un’opera in cui l’autore non si dà cura di rappresentare qualcosa di verisimile, ma segue il suo istinto, dando spazio a fantasia e irrazionalità, ritraendo ora paesaggi con elementi realistici ed altri inventati, ora accoppiando stili e forme appartenenti a forme diverse (come negli splendidi capricci scenografici del veneziano Canaletto, prima metà del XVIII sec.), fino a sfociare in alcuni casi nell’oscuro e nel grottesco.
Tra i più famosi capricci non si possono non citare poi gli ottanta Caprichos di Francisco Goya (fine XVIII sec.).
Un’ultima notazione in chiusura: così come molti altri termini artistici e musicali (due campi in cui l’Italia è sempre stata un’eccellenza), anche la parola capriccio passa alle altre lingue come italianismo tra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento, arrivando in francese e in tedesco prima con questo significato specialistico e solo in un secondo momento con quello più comune (non ha invece varcato le Alpi l’antica accezione legata alla paura).