“La corsa de L’Ora” di Antonio Bellia, docu-film sul giornale antimafia
La felicità nell’affrontare una sfida giornalistica (e umana), la convinzione di dover documentare tutto mettendo a rischio la propria pelle, l’idea di riscatto sociale per la società palermitana dominata dalla mafia
Ecco cosa accomuna nomi come Leonardo Sciascia, Francesco la Licata, Letizia Battaglia, Vittorio Lo Bianco, Franco Nicastro, Bruno Caruso, Mario Genco, Mauro de Mauro: senza questi “personaggi” che hanno infiammato la storia giornalistica degli anni Sessanta della movimentata Palermo (celebre il racconto intimo, delicato, sincero dell’uccisione di una prostituta per mano di un cliente innamorato) il giornalismo di cronaca nera e di inchiesta politica non esisterebbero. E soprattutto la lotta alla mafia che raccoglieva nell’aria di quegli anni “la sete di nuovo della gente di un’epoca nuova che si apriva”.
A far risorgere e ricordarci i bei tempi del giornalismo ci ha pensato Antonio Bellia, che ha scritto e diretto il docu-film La corsa de L’Ora analizzando, attraverso la voce narrante dell’attore Pippo Delbono, scelto “per la sua voce, lui nel film è in scena e riempie la scena con il suo sguardo con il suo fisico ma soprattutto riempie la scena con la sua voce, con le sue pause, con il suo ansimare” e che interpreta lo storico direttore del giornale Vittorio Nisticò, la cui conoscenza con il regista è stata “determinante” per la realizzazione del documentario stesso.
Si passa dal ritratto su Sciascia, soprannominato Nana dai tempi della sua giovinezza e che secondo il regista “rappresenta una delle menti più illuminate che la Sicilia ha concepito nel XX secolo”; un uomo che si mostrava poco e andava in giro con il suo foglio di note piegato in 4; a il primo racconto di mafia urlato in piazza da Levi e Pertini in occasione dell’uccisione del sindacalista Salvatore Carnevale nel maggio del 1955 a Sciara.
Storie di vita popolare fotografate da Letizia Battaglia, che racconta la sua vita al giornale, l’atmosfera “edificante e onorevole”. Una Rolex in mano e via in strada a scattare l’immagine giusta nel momento giusto, “convinti di dover documentare tutto”.
Si ricordano le inchieste di Vittorio Lo Bianco “per cui nulla era impossibile” passando per il giornalismo popolare di Franco Nicastro, che ha rappresentato il basso della cronaca nera e l’alto della politica nazionale.
Ma L’Ora si è contraddistinto anche per il taglio satirico grazie alle vignette di Bruno Caruso (precursore di ciò che farà poi Peppino Impastato con la sua radio e il giornale), che con “coraggio e fantasia ha ridicolizzato la mafia” causandogli anche una sospensione.
Nell’estate del ’61 Nisticò ritorna a L’Ora, dopo aver passato qualche mese a Il Paese a Roma. Fu accolto con entusiasmo al suo ritorno a Palermo, lui che era un siciliano di “scoglio” (e non di “mare aperto”), incapace ai distacchi. “Era un quotidiano che Nisticò”, ricorda Bellia, “voleva che fosse letto da tutti e questo obiettivo, grazie alle sue grandi intuizioni, è stato raggiunto”.
Dotato, secondo Bellia, di una “straordinaria capacità descrittiva e di grande visionarietà”, Salvo Licata raccontava “i sobborghi di Palermo con una poesia, crudezza e fantasia davvero straordinaria”. Da non dimenticare le inchieste di Mario Genco, conosciuto per i suoi attacchi folgoranti e la passione con la quale raccontava i quartieri popolari terminando per il racconto emotivo sulla sparizione di Mauro de Mauro e quel senso di impotenza che toccò l’equipe de L’Ora. Sciascia, all’epoca della scomparsa di de Mauro, dichiarò che “era morto per una cosa che non sapeva di sapere”.
In questo excursus storico non si dimentica il valore sociale del giornale che, in seguito al terremoto di Belice, si fece promotore della ricostruzione della scuola.
Un bello sguardo sul giornalismo del passato, su una testata finanziata dal Partito Comunista Italiano ma che Nisticò riuscì “a lasciare fuori dalla porta ogni tentativo di “condizionare” la linea editoriale del quotidiano da parte di chiunque ci provasse”. Un’analisi che fa riflettere sul giornalismo di oggi, i cui “direttori dovrebbero rimettere al centro “il giornale e i lettori e non gli editori e le pressioni politiche”, conclude Bellia.
Francesca Britti