Referendum autonomia di Lombardia e Veneto. Istruzioni per l’uso (non) politico
Domenica 22 ottobre referendum in Lombardia e Veneto per votare sull’opportunità o meno di chiedere al Governo maggiori autonomie. Non è la Catalogna, ma sino a dove arriva la propaganda?
“First Scotland, then Catalonia, and now? Milan and Venice“. Titola così il New York Times in un articolo dello scorso 17 ottobre dedicato al referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto con intervista al governatore lombardo Roberto Maroni.
Nonostante il clamore che quest’apertura può suscitare, occorre rassicurare i lettori: le vicende in Scozia e Catalogna non hanno nulla da spartire con i nostri quesiti referendari. Lombardia e Veneto non reclamano “indipendenza” dal Governo centrale, ma cercano maggiore “autonomia” da Roma. Andiamo nel dettaglio.
Cosa e come si vota.
Domenica 22 ottobre gli elettori di queste due Regioni sono chiamati alle urne per votare due distinti referendum legali, perché accolti dalla Consulta in conformità alla Costituzione e indetti con l’accordo del Governo, e consultivi, ciò significa che l’esito non costituirà vincolo per le Regioni o per il Governo, ma aiuterà i due governatori a presentarsi al tavolo delle trattative con l’Esecutivo legittimati da una maggiore forze derivante proprio da questo sostegno popolare.
Gli elettori vengono interrogati su due distinti quesiti:
Referendum Lombardia: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?“.
Più breve è il quesito del Veneto: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.
I cittadini sono dunque chiamati ad esprimere un “Sì” o un “No” – e addirittura “Scheda bianca” in Lombardia: ma per quale ragione? – su una classica scheda elettorale in Veneto, mentre i lombardi si cimenteranno per la prima volta con il voto elettronico, novità nel panorama delle consultazioni italiane.
Dato che la Regione Lombardia ha approvato il referendum con mozione votata a maggioranza qualificata in Consiglio Regionale, non è previsto alcun quorum per validare la consultazione; diversamente il Veneto necessita di un’affluenza del 50% + 1 degli aventi diritto al voto.
Cosa accade se vince il sì.
Sgombriamo il campo dal primo plausibile fraintendimento: Lombardia e Veneto, qualora vincesse il Sì, non diventeranno automaticamente Regioni a Statuto speciale come Sicilia o Trentino Alto Adige (affinchè questo avvenga occorre una modifica della Costituzione). Il valore di questa consultazione è esclusivamente politico.
I governatori della Lombardia, Roberto Maroni, e del Veneto, Luca Zaia, si rivolgono ai cittadini per ricevere da essi un mandato qualificato a trattare con il Governo sulla possibilità di gestire in autonomia alcune competenze ad oggi oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni (art. 117 co. 3 – Titolo V Cost.).
Sono 20 le materie concorrenti, ma le due Regioni reclamano in particolare la possibilità di mantenere nei confini molto più gettito fiscale di quello che ora mandano a Roma, ovvero ridurre il cosiddetto “residuo fiscale“, la differenza tra quanto viene versato e quanto ritorna dal Governo centrale.
Nella arringhe di propaganda più volte Maroni ha anche sostenuto che su “sicurezza ed immigrazione” se vince il Sì finalmente si potrà decidere autonomamente: nulla di più errato, queste due sono materie ad esclusiva competenza statale (art. 117 co. 2- Titolo V Cost.).
Non basta. C’è un’altra chiave di lettura cui dedichiamo una breve analisi: questi referendum portano nuovamente alla ribalta quel cavallo di battaglia con cui la Lega Nord non ha smesso fatto proselitismo, ovvero la separazione da “Roma ladrona”.
Non ha smesso, in realtà, sino all’arrivo di Matteo Salvini, attuale segretario, il quale, dopo un iniziale silenzio, ha poi appoggiato il Sì alla consultazione, ma senza esporsi troppo conscio di quelle correnti (e presto per dire lotte) intestine al suo partito e che vedono contrapporsi la sua idea di “partito nazionale” con la sempre radicata e originaria idea di separazione della prima Lega a trazione Umberto Bossi e, appunto, Maroni.
Era necessario indire un referendum?
No, non lo era. Per dettato costituzionale ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata (art. 116 Cost). Infatti, non è ricorsa al referendum consultivo, la Regione Emilia-Romagna il cui presidente Stefano Bonaccini ha firmato con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni una dichiarazione di intenti con la quale si dà avvio all’iter per l’ottenimento di maggiore autonomia.
Non passa certamente inosservato il fatto che tra soli cinque mesi scade il mandato di Roberto Maroni alla guida della Lombardia e si andrà nuovamente alle urne per nuove elezioni regionali. Incassare una tale vittoria è un ottimo trampolino dal quale lanciare la campagna elettorale. Perchè non farlo prima? Meglio lasciare agli elettori ricordi di battaglie vinte molto di recente.
Chi dice Si e chi dice No
Sostengono il Sì Lega Nord, Alternativa Popolare, Forza Italia e M5S. Lascia libertà di coscienza Fratelli d’Italia la cui leader Giorgia Meloni non è affatto favorevole alla consultazione. Contrari i partiti di sinistra come MDP, Campo Progressista ed in linea di principio anche il PD, ma sia il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, papabile candidato alle prossime regionali, sia quello di Milano Giuseppe Sala abbracciano l’idea della maggiore autonomia quale via per il miglioramento della gestione dei territori.
Polemiche per i costi economici
Il conto della Regione Lombardia ammonta a 48 milioni di euro, quello del Veneto a 14 milioni. Dinanzi a tali cifre le polemiche non sono certo mancate, si ricorda che il Pirellone paga in termini di prezzo soprattutto l’innovazione del voto elettronico. Il Viminale, inoltre, chiede alle due Regioni il pagamento degli straordinari delle forze dell’ordine per garantire ordine e sicurezza.
La Lombardia deve 3,5 milioni di euro, il Veneto 2,44 milioni. Mentre Maroni ha affermato di essere cosciente che i costi sarebbero stati a carico della Regione, una “non” risposta molto polemica quella di Zaia il quale che affermato che per il momento non vuole parlarne.
Come ogni recente ritorno italiano alle urne, la vera incognita è quella dell’astensione e i due governatori ne sono consapevoli. Stante il fatto che coloro che andranno al seggio voteranno Sì, Zaia teme di non raggiungere il quorum necessario della maggioranza più uno degli aventi diritti, mentre Maroni, nonostante in Lombardia non vi sia soglia minima, corre ai ripari ribassando di volta in volta l’asticella del suo obiettivo.
Nella sua ultima dichiarazione ha indicato al 34% la prima tappa di successo. Perché proprio il 34? Nel 2001 al referendum per la Riforma del Titolo V della Costituzione andarono a votare con questa percentuale. Si potrebbe dire che è un po’ “bassa” per arrivare festosi al negoziato con il Governo, ma al di sotto è da considerare certamente un flop.