Un Paese in guerra perenne con il terrorismo
La definizione “Guerra al terrorismo” richiama alla mente gli USA. Eppure è la Francia il Paese maggiormente bersagliato dai terroristi, schiava com’è di una politica di potenza che la espone ad enormi rischi
Tutti noi portiamo ancora nelle mente le immagini strazianti dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, dei morti del Bataclan e dei turisti terrorizzati che scappano come formiche impazzite sul lungo mare di Nizza. Il fil rouge – rosso come il sangue delle centinaia di vittime innocenti – che “lega” la Francia al terreur(ismo) ha radici profonde.
Per la precisione, parte da Robespierre ed arriva direttamente ai giorni nostri. Passa per la guerre d’Algerie e i movimenti a sostegno della causa palestinese. Aggrovigliandosi sempre di più con questioni complesse, che hanno a che fare con la (de)colonizzazione e le scelte in politica estera.
Trentacinque anni in cui bombe, sangue ed attentati hanno segnato la storia di un intero Paese e la vita della sua gente. Era il 1950 quando i primi ordigni artigianali iniziarono ad esplodere per le vie di Parigi. La Francia e l’allora Presidente Charles De Gaulle cercavano, tra mille difficoltà, di mettere fine alla fallimentare esperienza coloniale. Mollare l’Algeria era la priorità per l’Eliseo.
C’era, però, chi non ne voleva sapere. Come i membri dell’AOS (Organization de l’Armée Secrète), decisi a preservare la grandeur dell’impero che fu. Nei 10 anni successivi si susseguirono attentati e decine di morti. La strage del treno Parigi–Strasburgo, con le sue 28 vittime, è ancora vivo nella memoria di tutti i francesi.
Dall’Algeria alla Palestina il passo fu molto breve. Non trascorsero nemmeno 10 anni dall’ultimo attentato: nel 1970 la Francia si trovò nuovamente in balia del terrorismo. Questa volta la minaccia portava lo pseudonimo di Marcos. Un terrorista ricercato in tutto il mondo, all’epoca dei fatti, che sotto l’egida dell’OLP si rese responsabile di diverse azioni terroristiche. Treni, ma anche aerei di linea israeliani, diventarono così i bersagli preferiti. Poi fu la volta di al Fatah, o più correttamente al Fath. Il gruppo armato, distaccatosi dall’organizzazione di Yasser Arafat, fece irruzione nel ristorante Goldenber in pieno quartiere ebraico. Finì con diversi morti e decine di feriti.
Una lunga scia di sangue destinata a durare ancora molto. Negli ’80, infatti, la decisione della Francia di non riconoscere il genocidio armeno scatenerà la rappresaglia dei gruppi armati armeni. Seguirà Hezbollah e poi di nuovo l’Algeria a metà anni ’90. Questa volta, la sigla sarà quella del GIA (Gruppo Islamico Armato) evidentemente infastidito dal sostegno offerto dalla Francia ad Algeri.
Per arrivare, infine, al più recente passato e a quelli che vengono comunemente chiamati “lupi solitari”. Armi micidiali, buone ad ogni occasione, nelle mani delle più variegate sigle del terrore internazionale. Basta solo rivendicare la paternità delle loro azioni ed il gioco è fatto.
Al centro di queste sommosse, dunque, ci sono loro: i francesi. Un popolo storicamente e culturalmente geloso delle proprie libertà. Costretto, invece, ad accettare uno Stato d’emergenza che sarebbe dovuto durare 3 mesi ma che è stato prolungato per 6 volte. Come successe nell’America di George W. Bush, anche i francesi si sono visti privare dei loro diritti civili da un giorno all’altro.
Il tutto in nome di una sicurezza che, sia in un caso che nell’altro, non è mai veramente arrivata. Come dimostra la recente strage di Orlando. Ed ecco che le parole pronunciate da Roosvelt, molti anni prima dell’11 settembre 2001, sembrano suonare profetiche: “Chi è disposto a rinunciare alla propria libertà in nome della sicurezza non merita né l’una né l’altra”.
Arresti domiciliari, perquisizione senza mandato, limitazione agli spostamenti delle persone e proibizioni a svolgere manifestazioni pubbliche. Come nel caso del vertice sul clima (Cop21), dove moltissimi attivisti ed ambientalisti sono stati arrestati nei giorni precedenti al summit. Colpevoli, a quanto pare, di voler manifestare tutto il loro disappunto per le modalità con cui vengono affrontati temi importanti come il cambio climatico e l’inquinamento. Questioni che, evidentemente, non hanno nulla a che fare con la Jihad e il terrorismo internazionale.
Da pochi giorni l’Assemblèe Nationale ha approvato la nuova legge contro il terrorismo tra l’entusiasmo di Emmanuel Macron lo scetticismo di chi, come Human Rights Watch, crede che questa sia l’ennesimo tentativo per limitare la libertà dei francesi. Nel testo approvato sono cambiate le definizioni ma i provvedimenti in vigore fino a poco fa sembrerebbero essere rimasti gli stessi.
“Le perquisizioni domiciliari” sono diventate “visite domiciliari”, mentre le “detenzioni domiciliari” si sono trasformate con un colpo di magia in “perquisizioni amministrative”. Rimane il fatto che l’80% dei controlli fin ad ora non ha portato a nessun arresto significativo se non per crimini minori.
A scanso di equivoci, forti critiche al provvedimento legislativo sono arrivare anche dall’ONU – nella persona dell’avvocatessa Fionnuala Nì Aolaìn. Preoccupazioni che riguardano le possibili e “gravi conseguenze che questo potrà avere sull’integrità della protezione sui diritti umani in Francia“.
Nel dubbio, però, il Presidente francese si è presentato alla CEDU, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, per rassicurare tutti che “le misure adottate sono mirate, proporzionate ed esclusivamente legate alla finalità di prevenzione e lotta al terrorismo”. Per farlo, sarà necessario aumentare i controlli sui cellulari e sulle comunicazioni personali ovviamente.
Dal canto suo, invece, l’opinione pubblica francese sembra spaccata. Il 57% degli intervistati dall’Istituto Fiducial/Odoxa, infatti, crede che le nuove misure adottate siamo necessarie per contrastare la crescente ondata di attacchi terroristici. D’altro canto, il 62% dei francesi raggiunti dal sondaggio ha manifestato preoccupazioni per la tendenza questa legge potrebbe aver sulle libertà personali. Forti dell’esperienza americana, infatti, sembrano esserci buone ragioni per credere che questo accadrà. Ai posteri l’ardua sentenza.
Per ora, non rimane che un’ultima riflessione. L’attuale stato di cose, gli attentati “home made” e le minacce di sangue e distruzione, hanno sicuramente finito per farci vivere in un clima di terrore che avevamo rimosso dalla nostra mente.
Infatti, come scriveva Primo Levi: “Noi che viviamo sicuri (o meglio che vivevamo sicuri) nelle nostre tiepide case e che tornando a casa troviamo sempre cibo caldo e visi amici“, dovremmo iniziare a considerare l’eventualità che forse chi semina odio raccoglie tempesta? Se fare accordi con il diavolo alla fine potrà portare qualcosa di buono? O se affidare le “nostre guerre” agli altri, per paura di perdere consenso popolare, finirà per rivoltarsi contro di noi?
Forse, però, neanche rispondere a queste domande potrà aiutarci a risolvere le cose. In fondo, quella che stiamo combattendo è una guerra che non siamo in grado di vincere. Di sicuro non con la visione che abbiamo utilizzato fino ad ora. Il terrorismo è una strategia, vecchia e spesso vincente, tanto quanto lo è un bombardamento.
Ad aggravare le cose, poi, c’è anche il fatto che quello di cui stiamo parlando è un terrorismo ideologico e le ideologie sono davvero difficile da sconfiggere. Per queste ragioni varrebbe la pena concentrare tutti i nostri sforzi affinché tutti possano trovare facendo ritorno a casa del cibo caldo e dei volti amici. Magari tra i banchi di scuola o in un campo da calcio.