Myanmar, l’incubo dei Rohingya non ha fine
Non sembra avere fine la persecuzione contro la minoranza musulmana dei Rohingya nel nord di Myanmar. Nazioni Unite e diverse Ong testimoniano le violenze da parte del governo birmano, che nega
Per le Nazioni Unite si tratta di un esemplare caso di pulizia etnica. Per l’esercito del Myanmar, accusato della strage, invece, non ci sarebbero stati assassinii, espropri, devastazioni, stupri o violenze subite dalla popolazione Rohingya.
Ed è significativo che la figura leader del Paese, Aung San Suu Kyi, che per anni è stata a sua volta vessata e oltraggiata dal governo per il proprio impegno civile e democratico – tanto ricevere il Nobel per la Pace nel 1991 – oggi ritenga che “la situazione è ostile e movimentata ma la definizione di pulizia etnica è troppo forte”.
Non è dello stesso avviso la comunità internazionale che, anche se non sempre in modo diretto, sta facendo pesare l’incongruenza tra il sofferto passato dell’ex Birmania ed il suo attuale comportamento verso una delle minoranze etniche del Paese.
Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Rex Tillerson, ha incontrato ufficialmente la leader birmana ed il capo dell’esercito chiedendo “un’indagine chiara, esaustiva ed imparziale sui soprusi subiti dai Rohingya” – senza additare, però, un responsabile preciso.
Più netta la posizione del Primo ministro britannico Theresa May, che ha già interrotto la collaborazione con l’esercito per la formazione militare delle loro truppe dopo aver richiesto l’immediato stop della persecuzione dei locali. La Cina, invece, chiede di responsabilizzare l’intera comunità internazionale per supportare “lo sviluppo della democrazia in Myanamar”.
E per quanto le Nazioni Unite si siano dimostrate più categoriche nel denunciare la gravità della situazione richiedendo l’immediato stop delle violenze, non è ancora stato presentato alcun tipo di sanzione.
I Rohingya sono una comunità etnica musulmana composta da circa un milione di persone con origini arabe e una propria cultura e tradizione che vive da generazioni in Myanmar, nella regione del nord di Rekhine, rappresentando la maggioranza di musulmani nella Nazione. Per queste ragioni, hanno chiesto di fare parte delle oltre cento minoranze etniche attualmente riconosciute dal Paese.
Il Myanmar, a maggioranza buddista, ha negato loro questa possibilità, considerandoli immigrati illegali del Bangladesh – arrivando addirittura ad escluderli dal censimento di tre anni fa. La mancanza di identità e l’irregolarità della loro esistenza nel territorio ha generato forti momenti di sopraffazione e scontri tra gruppi etnici che hanno portato i Rohingya a continui spostamenti a partire già dagli anni Settanta.
Nel 2013 parte della popolazione civile dei Rohingya ha costituito l’Armata di Salvazione Arakan, ARSA, con l’obiettivo dichiarato di “proteggere e salvare la propria gente secondo il legittimo principio dell’autodifesa” dalla persecuzione civile che è costretta a subire.
Nel 2016 l’ARSA ha sferrato il primo attacco contro la polizia: da quel momento il Governo definisce i suoi militanti come terroristi. Termine puntualmente rifiutato dall’Armata, che sostiene di non rivolgere mai i propri attacchi contro i civili. In un clima di costante tensione, alla fine dello scorso Agosto si è verificato l’ultimo degli scontri tra militanti e forze della polizia dove 12 agenti sono rimasti uccisi.
Da quel momento il governo ha messo in piedi l’ennesima persecuzione che sta portando centinaia di migliaia (537 mila, ad oggi, secondo le Nazioni Unite, di cui il 58% sono bambini) al di là del confine del Bangladesh, già terra di esodo (si contavano 300 mila persone arrivate a rifugiarvisi già prima di quest’estate), dove i campi di accoglienza cominciano ad essere stracolmi ed insufficienti.
Oltre alle già citate violenze, infatti, ormai da tempo la criticità riguarda anche la mancanza di cibo, acqua potabile e le condizioni igienico-sanitarie. Condizioni critiche puntualmente denunciate dall’UNICEF e da diverse altre Ong a supporto dei rifugiati. Un mese fa l’ONU, insieme all’Unione Europea e al governo del Kuwait si è posta l’obiettivo di venire incontro ai rifugiati con 430 milioni dollari (360 circa di euro) entro il prossimo febbraio.
Nel frattempo, il Bangladesh ha promesso la costruzione di ulteriori rifugi. Eppure la postura del Paese d’accoglienza è duplice: se ritiene di doversi fare fisicamente carico degli esodati, ha, comunque, richiesto alla comunità internazionale di intervenire per mettere un limite alle migrazioni.
E mentre Amnesty International conta in ordine delle centinaia le vittime Rohingya da agosto ad oggi, parlando esplicitamente di apartheid, e Human Right Watch attesta a 280 i villaggi distrutti o quasi da parte del governo, quest’ultimo accusa i “terroristi” dell’ARSA delle distruzioni contro il loro stesso popolo e di avere ordinato la popolazione l’esodo.
Secondo la stessa Aung San Suu Kyi, inoltre, la repressione della sommossa di fine agosto si sarebbe risolta in una decina di giorni: non secondo l’ONU e diverse Ong impegnate sul luogo continuano a testimoniare violenze e uccisioni per mano governativa.