PiùLibri2017: Asli Erdogan, il destino e la libertà
Per la terza giornata di Più Libri Più Liberi 2017 a Roma abbiamo scelto un focus sull’incontro con la scrittrice turca Asli Erdogan. Dissidente e ribelle, incarcerata per più di cento giorni per le sue idee rivoluzionarie nella Turchia di regime. “Ribellarsi, resistere, scrivere”
Venerdì 8 dicembre è stato un grande giorno per Più Libri Più Liberi 2017. Gli incontri, numerosissimi come sempre, hanno avuto una testa di ponte d’eccezione. Sui divanetti bianchi della sala Nuvola la magnifica presenza di Asli Erdogan, scrittrice turca e dissidente che non ha bisogno di presentazioni. A dialogare con lei Chiara Valerio, irruenta scrittrice e saggista italiana che stava chiaramente conoscendo un suo idolo personale, e il più moderato Pierluigi Battista, giornalista del Corriere della Sera.
L’incontro, dal titolo “Ribellarsi, resistere, scrivere”, inizia con un monologo entusiasta della Valerio, che ci presenta Asli Erdogan dai suoi libri, da “Mandarino meraviglioso” (Keller Editore) fino alla più recente pubblicazione, “Neppure il silenzio è più mio” (Garganti).
In quest’ultimo l’autrice ragiona sulle parole, sulla loro capacità di essere menzognere e di nascondere la verità. Nonostante utilizzate come strumento simbolo della ricerca del vero, le parole sono anche la via per seppellirlo e mistificarlo. Una rappresentazione molto pratica di qualcosa di così aleatorio, ma Asli è una fisica e parte sempre da un’immagine.
Alla domanda “Qual è il destino della letteratura turca?”, la Erdogan risponde divertita: «Il mio ultimo libro parla proprio di questo: destino e libertà. A volte il destino può trasformarsi in una prigione. Attualmente centosettanta scrittori, critici e poeti turchi sono in carcere. Sembra quasi che non si possa essere uno scrittore se non si è stati arrestati. Sembra che la Turchia abbia un inspiegabile risentimento verso la sua stessa voce».
Dopo il fallito golpe ai danni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, la scrittrice venne fermata dalla polizia e successivamente imprigionata per centoventisei giorni, insieme al resto della redazione del quotidiano Özgür Gündem. Di quei giorni racconta che aveva sempre un gran desiderio di leggere i libri di Orhan Pamuk e di averli chiesti ai suoi carcerieri.
Per tutta risposta se li vide negare, però il poliziotto aggiunse: “Se vuoi puoi parlare direttamente con lui, è nella cella accanto alla tua”. Un trauma che uccise qualcosa dentro di lei, e quel poco che è sopravvissuto è attualmente la Asli che si confronta con il mondo, sulla quale ancora pesa un processo di condanna a morte.
La sua colpa era quella di aver aderito a un giornale di sinistra, di aver scritto in compagnia di altre tre donne degli editoriali troppo forti per il governo. Addirittura di aver parlato di un enorme tabù per la Turchia: il genocidio degli armeni. Tra il 1915 e il 1916 morirono un milione e mezzo di armeni, in quello che fu un vero e proprio olocausto, perpetrato dall’Impero Ottomano.
Nella Turchia moderna è vietato parlarne, è vietato raccontarlo e, forse la cosa più pericolosa di tutte, ricordarsene. Asli fu tra gli intellettuali che firmarono una lettera di scuse per gli armeni, redatta da cinque accademici nel 2007. In quell’occasione i media la tacciarono di essere una traditrice del popolo e rischiò il linciaggio in un supermercato.
«Tutta la storia turca è piena di sangue – dice la scrittrice – perché essa odia guardarsi allo specchio ed elimina chiunque si ponga in funzione riflettente per renderla consapevole». Parla della libertà di espressione e stampa, che anche in paesi democratici come l’Italia sembra ancora essere un miraggio. Sono i piccoli compromessi che ingigantiscono la crisi, anche e soprattutto nelle pubblicazioni. Pertanto ricorda l’importanza dell’editoria indipendente, che aiuta anche le voci più scomode a farsi sentire.
Negli occhi di Asli Erdogan c’è una furia battagliera che infiamma anche il pubblico seduto. Si vede dalla sua posa sulla sedia, come se dovesse scappare da un momento all’altro, dal modo di tenere il microfono, come se fosse un’arma. Si vede dal suo sorriso, rivolto a un mondo che potrebbe fare di più per la Turchia ma non sa come iniziare. Un mondo che non ha modo di vedere se non attraverso i suoi occhi di spettatrice che, infatti, si impegna a non chiudere mai.