La Gerusalemme occupata
Le dichiarazioni di Trump sullo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme riaccendono la polveriera israelo-palestinese. Le conseguenze, però, questa volta potrebbero essere davvero imprevedibili
La decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme ha riacceso un conflitto mai risolto. Da giorni continuano ininterrotti gli scontri tra i palestinesi e l’esercito israeliano e, con questi, il numero dei feriti ha superato le 1.000 unità.
Gli ammonimenti della Comunità Internazionale sono serviti a poco e, man mano che passa il tempo, diventa più difficile tornare indietro – ammesso che la Casa Bianca ne avesse avuto intenzione, ovviamente.
D’altra parte Trump avrebbe potuto fare come i suoi predecessori, prorogando di sei mesi l’entrata in vigore della legge che dal 1995 obbliga gli Stati Uniti ad aprire un’ambasciata a Gerusalemme.
I bene informati assicurano che per trovare un edificio adatto, attrezzarlo, renderlo sicuro e trasferirvici centinaia di dipendenti ci vorranno probabilmente anni. Nel frattempo, però, i già precari equilibri mediorientali sembrano essere stati irrimediabilmente compromessi.
Non che la situazione fosse idilliaca, è chiaro. Buttare benzina sul fuoco, tuttavia, appare quanto meno azzardato. Irrazionale, certo, ma anche in linea con un Presidente che – crisi coreana docet – ha fatto delle provocazioni una vera e propria strategia politica.
Un po’ come quando il Tycoon era un giovane e spregiudicato imprenditore, fanno notare in molti. Uno di quelli che si sono fatti da soli. Un bel “tesoretto” di famiglia e delle ottime conoscenze sparse qui e la ed il gioco è fatto. Peccato, però, che questa volta non si tratta di aprire un casinò o di riqualificare qualche malmesso ghetto della periferia newyorchese. Stavolta in ballo c’è molto di più. Ovvero: il futuro del più influente Paese al mondo.
Sarebbe interessante capire, allora, se la decisione di spostare l’ambasciata israeliana sia stata tutta farina del suo sacco o se, diversamente, Donald Trump sia stato consigliato (male) dal suo entourage politico. In tal caso l’ipotesi sarebbe ancor più grave, in quanto Gerusalemme non può definirsi una città qualsiasi. Non è Tripoli o Beirut, né tanto meno il Cairo: Gerusalemme è una città simbolo per l’umanità. Non serve ricordarne il perché e i simboli in questa storia contano.
Il suo status, infatti, è da sempre al centro dei colloqui di pace fin dall’epoca di Clinton e dei disattesi Trattati di Oslo del 1995. Gli scontri di questi giorni, quindi, hanno rafforzato l’idea che nell’ambito del conflitto israelo-palestinese tutto o quasi sia legato a questioni come l’identità, l’appartenenza e quei simboli che da un momento all’altro possono generare un conflitto.
Basterebbe rivedere le immagini dei soldati israeliani in lacrime dopo aver riconquistato la città Santa al termine della guerra dei sei giorni. O gli effetti – noti a tutti come prima intifada o intifada delle pietre – che sono scaturiti dalla provocatoria passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee il 28 settembre del 2000.
La questione è complessa e si porta dietro tutta una serie di ricorsi storici che partono dal 1949, data in cui dopo l’armistizio la città fu ufficialmente divisa in due. Ad ovest gli israeliani, ad est i palestinesi e in mezzo la c.d. Green Line.
Fin qui tutto semplice. Se non fosse per il fatto che gli israeliani e i principali soggetti politici palestinesi considerano Gerusalemme la Capitale dei loro rispettivi Stati. Israele ne controlla completamente oltre la metà della città e dal 1967 (ufficialmente per ragioni di sicurezza) ha deciso di occupare militarmente anche l’altra metà.
Al netto della cittadinanza propria riservata agli abitanti arabi di Gerusalemme Est – che gli garantisce il diritto alla residenza permanente e la possibilità di votare alle elezioni locali – la loro vita gli è resa impossibile da check point, muri, militari armati di tutto punto e restrizioni varie. Al punto, che si è diffusa ormai la convinzione che Israele voglia scoraggiarli dal viverci per farne indirettamente una città israeliana a tutti gli effetti.
Retorica forse, o magari no. Quel che è certo è che dietro all’ennesima bomba al vetriolo del Tycoon non può che esserci una motivazione diversa. Geopolitica, viene da pensare. O almeno si spera. Il continuo fermento nella regione mediorientale sembra confermarlo. Una riconfigurazione innescata dalle grandi potenze, pronte a spartirsi quel che resta dopo anni di guerra in Siria e la sconfitta del Califfato nero.
Come in una partita di poker, infatti, gli USA potrebbero aver tentato il più classico dei bluff: andare a vedere il punto degli avversari per cercare di confonderli. Dichiarando Gerusalemme Capitale dello Stato d’Israele. Trump deve aver pensato di scompaginare i piani russi in Medio Oriente. Rischiando invece di averne favorito l’implacabile ascesa come mediatore privilegiato.
A scanso di equivoci, infatti, lo Zar Putin ha organizzato un tour diplomatico che toccherà Siria, Egitto e Turchia. Lo farà proprio alla vigilia della Conferenza dell’Organizzazione dei paesi islamici di Istanbul. L’errore di valutazione appare, quindi, evidente.
All’orizzonte, le grandi manovre sembrano ormai iniziate. Benché dalle sponde del Nilo le acque si mantengano calme – in virtù delle buone relazioni con Israele e degli ottimi rapporti tra al-Sisi e Trump – la situazione potrebbe cambiare molto presto. Diversa, invece, la situazione ad Ankara.
La Turchia, inoltre, aveva da poco rinsaldato i propri rapporti di buon vicinato con Tel Aviv pur rimanendo la paladina per eccellenza della causa palestinese. La risposta stizzita di Erdogan alla recente dichiarazione di Trump, tuttavia, non lascia presagire niente di positivo.
Tutto materiale buono per appassionati di possibili futuri scenari geopolitici e intrighi internazionali. Dalle pagine del New York Times – più precisamente dalla penna di Anne Bernard – sembrerebbe emergere però una chicca inaspettata, capace di far impazzire anche i più avveduti analisti di questioni internazionali. Secondo la giornalista americana, infatti, l’Arabia Saudita avrebbe una proposta per Abu Mazen: spostare la Capitale palestinese nel villaggio Abu Dis, poco fuori da Gerusalemme est.
Inoltre, afferma ancora la Bernard, i sauditi avrebbero ipotizzato la possibilità di costituire uno Stato palestinese a sovranità limitata su Gaza e una Cisgiordania “rimpicciolita” dove rimarrebbero tutte le colonie esistenti. In cambio, alcuni territori ricavati dal Sinai egiziano.
Fantapolitica, probabilmente, ma la storia recente ci ha insegnato a non dare nulla per scontato.