Le parole per (non) dirlo: quando il lessico produce razzismo
A Più Libri Più Liberi si è parlato di sinonimi, significati ed espressioni da usare contro il razzismo, insieme ad Annalisa Camilli e Giulio Piscitelli
Si può definire una persona “clandestina”? Quando è lecito adoperare la parola “migrante”? Che differenza c’è tra uno straniero e un immigrato? Questi i temi dell’incontro “Piccolo lessico contro il razzismo” tenutosi nella giornata conclusiva di “Più Libri Più Liberi” alla Nuvola dell’EUR di Roma, moderato dai giornalisti Annalisa Camilli e Giulio Piscitelli.
Grande assente al dibattito è stato Alessandro Leogrande, che aveva collaborato con entrambi i giornalisti alla preparazione dell’incontro e che purtroppo ci ha lasciati qualche settimana fa.
Partiamo proprio dal termine “razzismo”, parola molto spesso abusata che in alcuni casi andrebbe sostituita con “xenofobia”, cioè la paura, l’ansia causata dallo straniero. Paura perché molto spesso lo straniero porta alla luce le falle della società che lo ospita, i limiti, i vizi e così “l’altro” diventa capro espiatorio.
Mai come ora la scelta delle parole da parte dei giornalisti è una responsabilità civica e politica. “Le immagini mentono”, dice Piscitelli, “se non vengono contestualizzate. È il caso del servizio della CNN sulla compravendita di esseri umani in Libia. Le persone si sono indignate ma la politica lo ha preso come un pretesto per giustificare l’intervento militare”.
“Ciò che probabilmente manca in questo periodo ai giornali è un processo di critica e rielaborazione”- aggiunge Camilli – “si riportano le frasi dei politici non riservandosi più l’analisi”.
What it is like to be trapped inside Libya’s detention centre. https://t.co/jdiLOQa9yS
— CNN Africa (@CNNAfrica) 15 novembre 2017
Leogrande aveva trovato una possibile soluzione: ripoliticizzare le parole. Dando così voce ai protagonisti, i “migranti” avrebbero un volto e non sarebbero solo una massa indistinta di persone, si imparerebbe a distinguere tra i richiedenti asilo e gli stranieri che invece vivono da decenni in Italia. Non bastano quindi le citazioni, i dati, le statistiche: bisogna aggiungere qualcosa di più alla narrazione di cui la scelta lessicale è solo lo strato superficiale, non si tratta di una mera questione linguistica.
D’altro canto già nel 2015 Al Jazeera chiedeva ai suoi giornalisti di non utilizzare la parola “migrante” poiché sarebbe stato troppo generico e quindi pericoloso. In Italia, solo di recente si è giunti al disuso del termine “clandestino”.
Il clandestino presuppone una “clandestinità” che è un reato, ma come può una persona essere illegale solo perché decide di vivere altrove?
Un tema sicuramente molto attuale che forse avrebbe meritato uno spazio maggiore di trattazione ma che si è posto come obiettivo quello di “seminare” qualcosa. È importante conoscere la nostra lingua, saperla utilizzare nelle sue sfumature più sottili, dare voce e chiarezza ai nostri pensieri perché la politica passa anche da qui.