“Call me by your name”: Guadagnino è da Oscar

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“Call me by your name”, nuovo film del regista Luca Guadagnino, il 4 marzo potrebbe aggiudicarsi la statuetta più ambita di Miglior Film all’attesissima cerimonia degli Oscar. Molto più di una storia gay, è la storia della nascita genuina di un amore in cui tutti possiamo riconoscerci

Oh to see without my eyes, the first time that you kissed me

Se non siete usciti dalla sala del cinema con questi due versi in testa e la morte nel cuore probabilmente non avete ancora visto Call me by your name, il film di Luca Guadagnino candidato a quattro premi Oscar. A quasi due settimane dall’uscita di una pellicola che è ormai sulla bocca di tutti, è difficile dire qualcosa di nuovo. Cominciamo, dunque, dall’ovvio: Call me by your name (o “Chiamami col tuo nome”) è bellissimo.

Ma in questo caso la parola “bello” la usiamo alla latina. Quel che era “pulchrum” al tempo dei Cesari era un’amabile commistione tra bellezza estetica, armonia, ritmo suadente e piacevolezza mentale. Qualcosa di poetico, di lucente. Tutto questo è Call me by your name, insieme alla quieta spirale che ha già sperimentato chi, almeno una volta, ha riconosciuto l’utilità di un dolore.

Partiamo con ordine: l’ispirazione. Il film è basato sull’omonimo romanzo di André Aciman e racconta la storia di Elio e Oliver. Nonostante il libro sia ambientato a Roma, Guadagnino ha deciso di spostare la location nella campagna cremasca, consegnandoci un nord Italia che così magico non si era mai visto. All’interno di questo contesto da Sogno di una notte di mezza estate, i nostri due attori: corpi, profumi, ombre l’uno nella vita dell’altro.

Elio, interpretato da Timothèe Chalamet (classe 95) a cui la performance straordinaria è valsa la più giovane nomination maschile della storia a Miglior Attore Protagonista, e Oliver, a cui dà forma Armie Hammer. Elio è figlio di un professore universitario appassionato di Antica Grecia e trascorre con i genitori tutte le estati in Italia, nella casa d’infanzia di sua madre. Oliver è uno studentello americano molto preparato, talmente bravo da essere stato invitato dal professore a trascorrere con loro qualche settimana di vacanza, premio annuale molto ambito. Siamo nel 1983, gli anni dell’Italia povera e valorosa, del pentapartito, della “buona creanza”.

Già dalla prima battuta di Elio si capisce il ruolo che Oliver avrà nella vita di tutti. Mentre lo osserva scendere dalla macchina, infatti, esclama: “L’usurpateur!”. Un’accusa tremenda, un termine guerresco, detto con tutta la dolcezza della lingua francese. Oliver conquisterà tutto, prenderà il posto di ogni altra cosa importante e, quando se ne andrà, non rimarranno che vite da ricostruire.

Ma non c’è solo l’amore in questa storia. C’è il desiderio, carnale e un po’ blasfemo, di fare le cose per la prima volte, di farle con foga e disperatamente. Perché le parole non bastano, né i giorni, né le capacità ristrette di due sole mani. C’è la paura di aver capito troppo per poter tornare indietro. C’è la nostalgia, amarognola quanto piacevole, delle occasioni perdute che un po’ tutte le storie d’amore brevi sono.

Guardare come due persone si innamorano, supremo piacere di tutti, raggiunge nel film di Guadagnino una nuova consapevolezza. Innanzitutto che il “gender” è quanto di più ridicolo possa esistere. In secondo luogo, che non esiste amore perfetto senza il necessario contrapposto di dolore.

Non piace definire Call me by your name una storia gay, ma è assolutamente necessario affermare che lo sia. Nonostante in numerose conferenze stampa il regista abbia ricordato come questa sia essenzialmente una storia d’amore, va sottolineato che Oliver e Elio si amano sapendo di essere due uomini.

Va affermato e ricordato per permettere a chi guarda di rendersi conto della totale uguaglianza del desiderio, sia che riguardi un corpo diverso sia uno simile al proprio. I due protagonisti sanno di avere un corpo simile, si scelgono consapevolmente anche di fronte a bellissime donne, si vogliono. In questo senso è una storia gay, perché è naturale e questo va urlato a gran voce.

Qui va necessariamente omaggiata l’immagine dei genitori di Elio, di suo padre specialmente. Non solo un uomo di cultura, ma un attento studioso della realtà e, al contempo, anche di fronte al dolore di suo figlio, nulla più che uno spettatore. Un padre che sa di dover sottostare alla suprema maestra ed educatrice della vita di Elio, l’esperienza. Una figura che ama, che conforta, che esalta la sofferenza perché dimostra “che eri vivo”.

Cornice della storia di due amanti, la Lombardia è la vera terza protagonista. Laghetti, montagne verdissime, sole carezzevole, cittadine tradizionali (nel senso buono della parola), sentieri acciottolati e biancheria lavata di fresco. Guadagnino utilizza un vecchio stratagemma letterario che vuole lo scenario a servizio della storia, e così il tramonto del giorno riscalda i cuori, in un’armonia che è tutta dello spettatore.

L’universo di Guadagnino, perfezionista e lezioso senza mai essere stucchevole, aggiunge al duetto degli attori il piano, la mescolanza di italiano, francese e inglese (nonché una dolcissima lettura dal tedesco della madre di Elio), busti e statue con le proporzioni auree dell’antichità, buon cibo e abiti dalla studiata cromaticità.

La colonna sonora passa, oltre che dalla musica classica, tra le mani di Sufjan Stevens. Visions of Gideon e Mystery of Love (candidata agli Oscar) sono, insieme alla recitazione di Chalamet, la punta di diamante di Call me by your name. Corrispondono infatti ai due punti più alti della pellicola: l’apice e la caduta di questa storia d’amore.

Call me by your name è una felice coincidenza di tante eccellenze. Un film destinato a restare nell’Olimpo delle “belle cose”, che sono rimaste le uniche autentiche in questa abusata industria cinematografica hollywoodiana. Anche un modo per essere orgogliosi di un talento italiano come Luca Guadagnino, che ha reso omaggio a una patria che non sempre è stata gentile con lui. Un’Italia che troppo presto lo aveva condannato per aver girato Melissa P in tempi non ancora maturi.

Insomma, non vi potete perdere Call me by your name. Andate al cinema e, se potete, cercatelo in lingua originale, per sperimentare tutta la genuinità degli attori. E in questo senso, che meraviglia signor Chalamet. Quando si dice far bene il proprio mestiere, immagino si intenda questo. Non stupisce che il fandom che si è creato intorno alla pellicola tenda a confondere attori e protagonisti, tanto impeccabile è stata la performance.

Timothèe interpreta un Elio magistrale, perso in Oliver e così disperatamente abbandonato ai suoi sentimenti e alla sua confusione da risultare incredibilmente commovente. Vi sfido a non piangere sulle note di Visions of Gideon, mentre scorrono i titoli di coda e Elio ha perso quasi tutto.

Poi, quando succederà, mettetevi il cuore in pace e sperate per la notte del 4 marzo. Del resto, lo dice anche Sufjan Stevens:

How much sorrow can I take?
Blackbird on my shoulder
And what difference does it make?
When this love is over.”

Gloria Frezza

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