Otto appunti finali sulle Final Eight di Galbiati e Torino
Alla fine ha vinto la Fiat Auxilium Torino, battendo la Leonessa Brescia (69-67 il punteggio). Una Coppa Italia vinta con merito, sul campo, facendo leva sui suoi punti di forza: imprevedibilità, talento
Di certo una finale inedita delle #Final8, che ha visto la seconda parte del tabellone prevalere sulla prima, in cui il carattere ha vinto la sfida delle “figurine”, regalando agli appassionati ed ai cronisti un’edizione da raccontare.
I Campioni. Quelli di Torino, la squadra di chi per il suo compleanno (il 34°) si è regalato una vittoria storia: Paolo Galbiati, lui che si è trovato a ricoprire il ruolo di capo-allenatore di una squadra che era nel pieno dell’occhio del ciclone in seguito all’addio di Luca Banchi, all’arrivo ed al successivo esonero di Carlo Recalcati, al caso Patterson, alla firma di Vander Blue. Tanta esperienza a livello giovanile in maglia Olimpia Milano (il grande flop di questa edizione) con uno scudetto giovanile ed un trofeo delle Regioni e tanti giovani che oggi militano nei campionati nazionali.
Deron Washington avrebbe meritato a mani basse il titolo di miglior giocatore del torneo, simbolo di quell’imprevedibilità e di quell’atletismo simbolo dei piemontesi. Garrett è un giocatore di assoluto livello, Poeta il collante tecnico ed emotivo, Sasha Vujacic la faccia vincente della squadra che in tanti davano per spacciata (e non per caso) qualche giorno fa e che ora tutti (e non per caso) celebrano.
Gli “sconfitti”. Purtroppo il pareggio nel basket non esiste e chi ne ha fatto le spese in finale è stata l’identità della Germani Basket Brescia. Una squadra ed una società che hanno costruito questa stagione gettando le basi negli scorsi anni con lavoro e programmazione ed il coraggio, quando si faceva difficile, di non esonerare coach Andrea Diana. Difficile non parlare del talento offensivo e difensivo rispettivamente di Landry e Moss, impossibile non citare la leadership di Luca Vitali, la funzionalità di Brian Sacchetti (ieri letale fuori dall’arco) e la velocità di Michele Vitali.
Il flop. Definire così Milano è addirittura riduttivo. Ennesimo fallimento ed ennesima manifestazione di una squadra che sembra proprio non avere un’anima. L’arrivo di Simone Pianigiani non ha dato un’identità, in campo e fuori a questa squadra che sembra inghiottire e far sparire, come un buco nero, chi indossa la sua maglia. L’esonero del coach toscano è un pensiero che si innesta in maniera automatica, ma servirebbe una forte assunzione di responsabilità anche di chi dirige la nave oramai da tempo e con risultati discutibili. I soldi spesi, le possibilità a disposizione non glorificano i trofei vinti e stridono con la situazione attuale ed i risultati europei.
Cremona e Cantù. Meo Sacchetti è un valore aggiunto, un valore che forse in questa Coppa Italia Pino Sacripanti non ha saputo rappresentare per i suoi. Esaltare troppo il fallimento milanese non rende onore al grande merito di Sodini e della sua truppa: infortunato Culpepper, senza Crosariol e con Burns a mezzo servizio , i canturini sembrano essere la vittima sacrificale ma così non è stato. Un coro cantato da avversari dice: “Come ca**o si fa a tifare Cantù?”, ecco il 105-87 finale chiarisce perfettamente il perché.
Programmare. È il termine che meglio accomuna le due finaliste: Brescia e Torino. Entrambe le squadre provengono dalla A2 e vincendo il campionato, nel passaggio alla categoria superiore, hanno costruito la loro credibilità. Stimolo e monito per chi oggi è nella seconda categoria nazionale, speranza per chi è sceso o scenderà: idee ed investimenti nei giusti settori ripagano sempre.
Gli ultimi 90 secondi. Sono forse il simbolo di questa finale. Non una bella finale sul piano estetico del gioco e forse anche nel tasso tecnico ma sicuramente tra le più emozionanti, come tutta la competizione. Gli ultimi 90’’ sono un mix pericoloso a livello coronarico: tiri da tre, una difesa “morbida” che consente a Vujacic di appoggiare facilmente, meno ragione ma tanta emozione insomma. E non se ne può fare una colpa ai protagonisti in campo, che proprio nel cuore che più nella ragione sentivano una motivazione ulteriore. Un cambio significativo rispetto al passato, nella speranza che sia un primo mattone.
Senza voto. Venezia e Virtus Bologna, per un motivo e per un altro ma tanta responsabilità ce l’hanno gli infortuni. La Reyer ha dovuto pagare tanto i cambiamenti stagionali per via degli stop di diversi dei suoi giocatori e lo Scudetto vinto non obbligava a dover vincere per forza qualcosa. Bologna invece partiva già senza Aradori ed ha perso Alessandro Gentile, che simpatico o meno che stia, non gode di fortuna diffusa. La post-season, differentemente dalla quattro giorni di Firenze, si aspetta da loro un volto e probabilmente anche bello alto.
Una bella #Final8. Nel complesso, si. Si è vista una forte impronta degli allenatori, soprattutto nelle vincenti ed una voglia di ricercare degli schemi che possano identificare le squadre sul campo. Non, come detto nei punti precedenti, bella dal punto di vista estetico, ma emozionante e che ha saputo coinvolgere e far parlare il pubblico ma che più di ogni altra cosa, nei limiti e nei pregi, ha saputo essere stata premiale. Premiando il merito.
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