Roma celebra il padre dell’impressionismo, Oscar-Claude Monet
Fino al prossimo 3 giugno il Complesso del Vittoriano di Roma ospita le opere del grande Monet. Un’occasione per ammirare ed immergersi in circa 60 opere, del genio impressionista, provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi
L’esposizione, curata da Marianne Mathieu, presenta moltissimi dipinti che l’artista francese conservava nella sua ultima dimora di Giverny e che il figlio Michel donò al museo parigino.
Da sempre definito il pittore del en plein air, “all’aria aperta”, Claude Monet dopo una vita passata a scoprire luoghi, a poco più di quarant’anni, nel 1883 si trasferì a Giverny, una città situata sulla riva destra della Senna in Normandia dove poi acquistò una proprietà e visse fino alla sua morte, avvenuta nel 1926.
La mostra, aperta fino al prossimo 3 giugno al Vittoriano di Roma, ripercorre la carriera dell’artista: dai primissimi lavori, alle celebri caricature della fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento con le quali riscuote i suoi primi successi fino ad arrivare attraverso i paesaggi rurali e urbani di Londra, Parigi, Vétheuil, Pourville, ai ritratti dei figli, alle tele dedicate agli amatissimi fiori del suo giardino (rose, glicini, agapanti) fino alla modernità dei salici piangenti, del viale delle rose e del ponticello giapponese, per arrivare alle monumentali Ninfee e Glicini.
Molte delle tele in mostra rappresentano proprio i giardini della casa di Giverny che Monet amava e curava personalmente. Quegli stessi giardini che il pittore considerava, così come la natura, il suo studio oltre che la sua ispirazione.
È qui che Monet dipinse molte delle sue più celebri tele, dove coltivò la sua passione per l’acqua e continuò la ricerca di effetti cangianti di colore e luce: la serie di Ninfee infatti è nata in questo luogo, sulle sponde del laghetto sul quale il pittore aveva fatto costruire un ponte in stile giapponese.
La moda della cultura giapponese infatti si diffuse a Parigi e in Francia a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento e Monet non ne fu escluso. Per il suo laghetto fece arrivare i semi delle ninfee dal Giappone, sulle sponde coltivò delle piante esotiche e fece piantare dei salici piangenti.
Dalla fine dell’Ottocento in poi dipinse il lago in modi molto diversi tra loro per colore, pennellate e atmosfere. Questo perché in vecchiaia cominciò a soffrire di cataratta e di conseguenza a non vedere più nitidamente colori e contorni. E si percepisce chiaramente tuttora nelle sue opere tarde.
I glicini, ma soprattutto le ninfee del suo laghetto, diventarono così la sua magnifica ossessione, i soggetti preferiti della sua pittura negli ultimi trent’anni di vita, tanto da averle rappresentate in circa duecentocinquanta opere. In quelle tele, il cielo non si vede ed è come se fosse stato gettato nell’acqua, un microcosmo perfetto per osservare, studiare e poi rappresentarle nelle varie sperimentazioni cromatiche.
L’attenzione dell’artista e dello spettatore è completamente assorbita dal gioco di luci e di colori dei fiori e dell’acqua e la composizione dà l’impressione di una distesa illimitata, in cui l’attenzione ai valori decorativi ha preso il sopravvento sulla necessità di aderire con fedeltà alla realtà con pennellate più libere e fluide.
Il percorso visivo ed emozionale si conclude con la natura direttamente trasposta su tela, fino a tramutarsi in essenza, in respiro vitale.
Una trasformazione del paesaggio ad opera della luce con vibranti pennellate ritrae sistematicamente gli stessi soggetti, dal microcosmo al macrocosmo in un equilibrio dove la realtà si conosce attraverso le impressioni che suscita come inquadrata da un fotografo.