Il romanzo della Coppa del Mondo
Fattori non comuni per esseri non comuni; inizia qui un nostro personalissimo percorso sulla storia dei mondiali di calcio, con piccole pillole che ne racconteranno lo svolgimento e da un riflettore che mette in luce non un gol o un gesto atletico particolare, ma l’umanità e le emozioni di determinate persone che hanno contribuito alla grande storia dei Mondiali
Abbiamo deciso di raccontarlo non solo perché tra pochi mesi saremo nuovamente in clima Coppa del Mondo (ahimè senza la nostra cara Nazionale) ma anche per ampliare la nostra cultura personale, perché, questo torneo nato agli inizi del secolo scorso, ci ha raccontato tante e tante storie che vanno ben al di là dello sport stesso e che ci narrano imprese uniche: di senso del dovere, di coraggio, di ingegno, di attaccamento alla propria terra, di politica e di amore, fattori, appunto, non comuni per essere non comuni.
Uruguay 1930 – Il sogno di un ometto con i baffi
Agli albori del secolo del calcio, il football era ancora qualcosa di nazionalistico e giocato nei “propri cortili del mondo”. Un lungimirante signore di nome Jules Rimet, era un funzionario sportivo francese ma soprattutto Presidente della FIFA, la federazione mondiale del calcio. Rimet ebbe un’illuminante visione futura di una competizione tra squadre nazionali che si affrontino in un torneo per la conquista del titolo di migliore squadra del mondo; come una Olimpiade, meglio di una Olimpiade.
Dopo vari tentativi, nel corso degli anni, finalmente il baffuto gentiluomo francese riesce ad organizzare il primo Campionato Mondiale, meglio chiamato Coppa Rimet, nel 1930 e in uno dei paesi dalla più forte tradizione calcistica di allora, un paese lontano dalle sedi della FIFA stabilita nel vecchio continente, un paese che in quel momento sta attraversando uno stupefacente e florido boom economico e può garantire la costruzione in tempi brevi dei nuovi stadi per la competizione: l’Uruguay.
Rimet riesce a trascinare in questo esperimento mondiale 13 nazioni, tra cui l’Argentina (che non può non esserci vista la grande competitività con i vicini di casa uruguagi), la Francia, il Cile, il Messico, la Jugoslavia, il Brasile, la Bolivia, la Romania, il Perù, il Paraguay, il Belgio, l’Egitto e gli Stati Uniti; l’Italia si disinteressa del torneo così come la Germania, mentre gli inglesi creatori del gioco si rifiutano di mischiarsi alla “plebe” del resto del mondo.
Il primo girone è stravinto dall’Argentina, che batte con un tennistico 6-3 il Messico, 1-0 la Francia nel match clou e 3-1 i Cile; una supremazia totale, con un calcio fatto di giochi di prima (molte delle giocate del calcio di oggi, come la Ruleta o la Rabona sono nate lì e in quegli anni), numeri col pallone e una certa forza fisica, tutta concentrata in uno dei suoi uomini simbolo, Luisito Monti che davanti la difesa non fa letteralmente passare nessuno, oltre che incutere un certo timore visto che uno, due avversari, contro di lui, finiscono la gara anticipatamente e in barella.
Nel secondo gironcino ad andare a casa sono il Brasile, ancora troppo acerbo per riversare tutta la passione nel calcio che dominerà il secolo, e la Bolivia a favore della Jugoslavia. Il terzo girone è quello dei padroni di casa che danno il poker alla Romania e superano di misura il Perù in una partita difficilissima. L’ultimo girone è quello che regala più sorprese con gli americani che passano a punteggio pieno mandando a casa sia il Paraguay ma soprattutto il Belgio (che imparerà molto da questa sconfitta storica).
È stato un mondiale storico, oltre che un esperimento perfettamente riuscito: la gente accoglie da subito la passione crescente e abbraccia i propri campioni, li spinge verso la vetta dove li aspetta la Coppa, che porta le sembianze della Dea Alata. Jules Rimet si accorge anche (o forse l’aveva proprio previsto) che tutto questo entusiasmo si riversa nel paese che ospita la Kermesse e infatti Montevideo diventa il centro del mondo per quasi un mese.
Le quattro nazionali che hanno vinto il proprio girone si ritrovano in due semifinali senza storia: troppo grande il divario tra l’Argentina e gli Stati Uniti, 6.1; stesso risultato per la celeste che liquida una Jugoslavia fino ad allora molto solida. I padroni di casa puntano tutto sui loro due assi: uno è Josè Leandro Andrade, la stella, l’uomo dalle mille leggende, l’altro è il capitano della squadra, un uomo che sta tra la difesa e il centro del campo che fa sia la fase difensiva che quella di costruzione che in Uruguay è tradizione chiamare Caudillos, il signor Jose Nasazzi. La finale quindi è quella preannunciata fin dall’inizio del torneo, le due migliori squadre del mondo (se escludiamo il Regno Unito) si affronteranno domenica allora Stadio Centenario per la finale della Coppa del Mondo.
Tra le due nazionali scorre un odio profondo (che va ovviamente oltre lo sfondo calcistico) e siccome argentini e uruguagi non sanno mettersi d’accordo davvero su nulla, si ha subito il problema del pallone con il quale giocare, perché gli argentini hanno portato il pallone loro. L’arbitro è il signor John Langenus, un belga che ha arbitrato benissimo durante il torneo ma si è trovato malissimo tanto che aveva già abbandonato l’Uruguay perché non aveva più partite d’arbitrare. Era arrivato da poco in Brasile per le vacanze quando fu richiamato per la finale; era un’occasione troppo ghiotta per un uomo come lui non accettare ma dettò delle condizioni: “Al fischio finale della partita voglio essere subito scortato e portato al porto per essere imbarcato al primo transatlantico per tornare in Europa”. E il signor Langenus sulla questione pallone la risolve nella maniera più diplomatica possibile: si gioca il primo tempo con il pallone argentino (misura 4 più piccolo e leggero) e il secondo con quello uruguagio (misura 5).
La finalissima
Uruguay: il porta Ballestreri, perché il titolare Massali (che risulta uno dei tre migliori portieri della storia dell’Uruguay insieme a Maspoli e Mazurkiewicz) nei primi giorni di ritiro nella “casa del River” sembra essere fuggito e mai più tornato per motivi misteriosi; in difesa ci sono Mascheroni e il capitano “El Mariscal” Nasazzi (si racconta che i suoi colpi di testa dal limite arrivavano fino a metà campo e se la palla era bagnata quindi più pesante, si spingevano oltre; a centrocampo Andrade, Fernàndez e Gestido; in attacco a trazione anteriore con Dorado, Scarone, Castro, Cea e Iriarte, manca Anselmo (che ha segnato la doppietta in semifinale) perché non riesce a sopportare la pressione per la finale e si narra avesse anche fin troppo timore a trovarsi di fronte Luisito Monti.
Argentina: Juan Botasso, difesa con Juan Della Torre e Fernando Paternoster; tridente di centrocampo con a destra Juan Evaristo, al centro Monti e a sinistra Suàrez; sulle fasce Carlos Peucelle, Francisco Varallo e Manuel Ferreira avanzato; attacco con Mario Evaristo e Guillermo Stabile, capocannoniere di questo Mondiale con finora con sette reti.
La tensione è altissima e la partita bellissima nonostante il nervosismo, gli argentini sono messi molto bene in campo e giocano meglio, ma i padroni di casa tengono botta sospinti anche da un pubblico eccezionale del Centenario e infatti, al 12’, segnano i padroni di casa con Dorado, e lo stadio quasi viene giù, ma pochi minuti dopo Peucelle riporta la sfida in equilibrio: al 37’ la rimonta albiceleste è completa con Stabile che porta la sua personalissima classifica marcatori a otto reti.
Fine primo tempo, nervosismo alle stelle da parte di Andrade e soci, ma ci pensa Nasazzi a raffreddare l’ambiente, sicuro di vincere, prende la squadra per mano e li riconduce fuori, ma adesso si gioca con il pallone di casa. Ed è tutta un’altra storia, la celeste prende in mano letteralmente la partita e il mondiale deliziando i propri tifosi. Pareggio di Cea su assist di Scarone al 57’ e sorpasso compiuto dieci minuti dopo con Iriarte (con l’ultimo passaggio di Cea), nel mezzo però ci sono un’occasione fallita da Monti e una traversa di Varallo. L’ultima azione della partita è la perfetta chiusura del primo grande capitolo della storia dei mondiali: Argentina in attacco per cercare il disperato pareggio, palla per Stabile che sfiora la traversa, contropiede degli uruguagi, Dorado crossa per Castro (il giocatore senza una mano per un incidente sul lavoro anni prima) che di testa mette dentro il definitivo 4-2.
Al fischio finale c’è chi piange, chi festeggia, chi esulta e chi fugge con gran fretta su di un sidecar (l’arbitro Langenus che non vede l’ora di tornare nel Vecchio continente). Nasazzi alza per la prima volta in cielo la Dea alata di nome “Coppa Rimet” e la lunga ed emozionante storia dei Mondiali di calcio ha così inizio.
Ho letto le memorie del arbitro Langenus, prima della finale non si trovava in Brasile ma aveva sfruttato dei giorni di pausa tra le semifinali e la finale per far un salto a Buenos Aires a fare il turista. Comunque doveva tornare a Montevideo per far ritorno in Europa insieme a tutte le squadre europee e dirigenti.
Curiosamente la nave doveva partire alla stessa ora del inizio della partita, quindi si fecero delle gestioni per ritardare di due ore la partenza e quindi per questo fu scortato dalla polizia per evitare ingorghi e velocizzare il trasferimento dallo stadio al porto.
Comunque non trovarono la nave perquè non era ancora arrivata, causa una fitta nebbia.