La discriminazione continua, indecente, lungo la sua strada
In Italia cercare lavoro diventa difficile anche a causa del proprio credo religioso, della propria terra di provenienza o del colore della pelle. Una discriminazione molto grave, di cui pochi ne parlano
In molte occasioni, in tanti, hanno definito quella italiana come “la Costituzione più bella del mondo“: Potrebbe davvero esserlo se solo ci si ricordasse più spesso dei suoi principi. Facendoli propri ma, soprattutto, mettendoli in pratica. Il primo comma dell’art. 3 parla chiaro: i cittadini, tutti, hanno sono uguali e hanno pari dignità sociale. Nessuna discriminazione è ammessa. Né distinzione di sesso, di lingua o di religione. Se ciò non accadesse, ecco che interviene il secondo comma del medesimo articolo: sarà la Repubblica a eliminare gli ostacoli che, di fatto, limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Sì, sembra proprio “la Costituzione più bella del mondo”.
Accade sempre più spesso, però, che principi a cui si faceva riferimento prima vengano violati e che a fare le spese siamo, sempre più spesso, le donne. Discriminate, umiliate e oltraggiate a causa del credo religioso, del colore della pelle o della terra d’origine. Dietro ogni violazione, però, vi è una politica spudoratamente xenofoba, razzista, miope e portatrice d’odio che alimenta questi atti (che così che alla fine appaiono come legittimati).
Dietro ogni forma di discriminazione c’è ignoranza, superficialità. Se ognuno si prendesse più tempo per capire, approfondire e conoscere la terra in cui vive. Se empatizzasse con chi gli è vicino, capirebbe magari che quelle convinzioni sature d’odio sono infondate. Che dietro di esse c’è il nulla, assoluto. Tra quanti (s)parlano di Islam, infatti, pochi conoscono, veramente, la realtà dei fatti. I tanti che pensano, ad esempio, che quello di coprirsi il capo con un velo sia un atto proprio della religione del Profeta non sanno che, nel codice canonico del 1917, le donne cristiane dovevano indossare il velo muliebre in chiesa.
Ecco, quindi, un esempio di tesi infondata, ma tante volte strumentalizzata per portare avanti pessime campagne elettorali. Credendo di colmare il vuoto che, invece, le contraddistingue. Paradossalmente, in un Paese in cui chiunque dovrebbe essere libero di (non) professare il proprio credo religioso, diventa difficile farlo nel momento in cui si è considerati “minoranza“. Può accadere allora, che in contesto del genere anche trovare un’occupazione diventi un impresa. Il lavoro, però, è un altro valore fondamentale per la nostra Costituzione (art. 4). È un diritto che la Repubblica si “dovrebbe” impegnare a rendere effettivo. I cittadini, dal canto loro, hanno il dovere di svolgere un’attività e secondo le proprie possibilità e per il progresso della società in cui vivono.
Sara Mahmoud non ne ha avuto la possibilità. Milanese, genitori egiziani, Sara è una studentessa italiana che cerca lavoro presso una società che si occupa di eventi. Può lavorare, sì, ma senza velo. La ragazza si ritrova a dover spiegare che porta il velo per motivi religiosi, ma niente: o il velo, o il lavoro. Vicenza, Sara è di fede islamica e di origine marocchina. Ha dichiarato di aver lavorato nel reparto logistico di una ditta di trasporti ma, inizialmente, è stata rifiutata in banca nonostante la sua buona preparazione. Sono molte le donne islamiche che in questa città lavorano sia come domestiche che nel settore industriale e artigianale. Gran parte di esse indossa il velo.
Le origini di Mariama sono italiane, invece. Ha iniziato come modella. Durante i colloqui di lavoro, dato che i suoi capelli era sempre coperti dal velo, le è stato chiesto se avesse bisogno di pause per pregare. Oppure, se fosse in grado di lavorare durante il Ramadan visto che non poteva mangiare. Come se volessero avere la certezza che, “nonostante” i suoi dettami religiosi, fosse in grado di farlo proficuamente. Varrà lo stesso per il fioretto cristiano? Il velo di Amina, inizialmente, provocava danni all’immagine di lo studio commercialista presso il quale aveva chiesto di lavorare. In seguito, il danno lo avrebbe provacato a se stessa in quanto, in un call center, non avrebbe potuto sentito bene le telefonate dei clienti. Già, è tutto molto surreale ma anche molto vero.
Si parla spesso di “integrazione” e tanti lo fanno quasi pretendendo avvenga unilateralmente. Svuotando, così, di significato e valore il concetto stesso. L’integrazione in un Paese con la “Costituzione più bella del mondo” dovrebbe, ovviamente, essere alla base di ogni azione che miri a costruire una società più umana e civile.
Giorgia Cecca
Fonte immagine in evidenza: manageritalia.it