La Bambola Spezzata: storia di un legame infranto dalla fede nazista
Eva viene abbandonata da sua madre quando ha solo sei anni. Oggi si incontrano e si scontrano dopo molti anni: al Teatro Stanze Segrete di Roma in scena “La Bambola Spezzata”
In scena, una vecchia valigia, una bambola e delle rose rosse: il regista Gianni De Feo racconta la storia di Eva e di sua madre. Nasce, così, uno spettacolo teatrale tanto emozionante quanto duro, capace di mostrare allo spettatore l’insopportabile disumanizzazione del periodo nazista. Chiunque sia capace di ricordare è coraggioso e La Bambola Spezzata è, infatti, un atto di coraggio sul palco del Teatro Stanze Segrete, una pietra preziosa nel cuore di Trastevere a Roma.
“Nel 2014 presentammo in prima assoluta al Teatro Erba di Torino un testo inedito di Emilia de Rienzo, La Bambola Spezzata. Lo spettacolo replicò nel 2015 al Teatro Comunale di Latina e ai Conciatori di Roma. Fu poi ripreso al Teatro Gobetti di Torino nel giugno dello stesso anno e al Teatro Comunale di Collegno per la Giornata della Memoria.
Allora ne tracciai una regia piuttosto astratta con colori lividi e vaghi segni simbolici ispirandomi, per alcune azioni, al teatro-danza di Pina Bausch e, per la musicalità del ritmo, al gusto dell’espressionismo tedesco. Il personaggio della madre, ex nazista fossilizzata nell’esaltazione dei suoi ricordi, aveva assunto nella mia interpretazione toni grotteschi e cinici fino all’assurdo. Una maschera di crudeltà immersa in una polvere allucinante di decadenza. Manuela Massarenti mi affiancava nel ruolo della figlia con grande sensibilità emotiva in una recitazione appassionata, in evidente contrasto con le fredde atmosfere della scena.
A distanza di tempo, viene ora riproposta La Bambola Spezzata in una nuova veste al Teatro Stanze Segrete di Roma. Affidando questa volta il ruolo della madre a una donna, la bravissima Alessandra Ferro efficace nei passaggi di tono dalla cattiveria più feroce a piccole punte di buffa comicità addirittura, ho rielaborato una messa in scena prevedendo colori più vicini al reale, pur conservando a tratti quelle intense atmosfere di allucinanti visioni oniriche.
Patrizia Bellucci nel ruolo della figlia, aderisce alle intenzioni espressive con altrettanta forza. Le musiche originali di Marcello Fiorini con la sua presenza scenica e il suono della sua fisarmonica contribuiscono ulteriormente ad esaltare il clima della recitazione, in un alternante ritmo di tensione e di abbandono“. Gianni De Feo presenta, così, la storia di Eva e di sua madre.
In uno spazio quasi irreale, le due donne si incontrano, parlano e si scontrano dopo molto tempo. Abbandonata a sei anni, Eva spera nel pentimento di sua madre e in una riconciliazione. Sua madre, però, ha ancora i segni sulla pelle e nell’animo del processo di disumanizzazione subito (volontariamente) durante l’arruolamento nelle SS: sono state proprio la fede nazista e la totale dedizione alla politica del Führer le cause dell’abbandono di Eva.
Seduta in un angolo, la madre è avvolta in una sorta di mantello con una svastica nera glitterata, mentre un collare di piume racchiude il suo collo. Collane di perle, ciglia finte e calze rosse, è priva di compassione ed empatia umana. Considera sua figlia come una “vecchia ciabatta” di cui si vergogna. È una donna estremamente sola, deturpata, dal volto bianco come il marmo e senza età, prigioniera dei suoi fantasmi, delirante e patetica, alterna attacchi di pianto a risate inquietanti. Suo marito non voleva facesse politica, non con Hitler. Desiderava si occupasse della casa e della bambina che, però, non riconosce come propria, avendo sempre sperato nella nascita di un figlio perché “lo chiedeva il governo“.
I tempi erano duri, la storia stava cambiando e lei voleva fare la sua parte. In casa si sentiva come imprigionata. Pretende di essere chiamata per la prima volta “mamma”: Eva, però, non può amarla e, dunque, può considerarla solo come una “madre”. È una figlia dolorante che porta con sé la vecchia bambola dai boccoli biondi che le era stata donata da sua madre. Le chiede spiegazioni e motivazioni, che riceve in un’aria dura e tagliente. Vuole toccare con le proprie mani l’orrore. “Io ho subito un trattamento di di-su-ma-niz-za-zio-ne“, scandisce ad alta voce sua madre. Aveva l’incarico di assistere i medici che si occupavano dei bambini malformati, asociali, malati di mente, disabili: sistematili in fila per due, assicuravano loro una “buona e pietosa morte“.
Si trattava dell’operazione eugenetica “Aktion T4”: secondo il regime nazista, “per quei bambini morire era solo un sollievo“. Erano considerati inutili e troppo costosi, e, per questo, lo Stato non poteva spendere risorse per tenerli in vita. Per questo, li si infettava con germi di malattie incurabili che li portavano alla morte. Operavano “per il bene comune“, spiega la madre. “Un bravo giardiniere non strappa forse le erbacce dal suo giardino? (…) Tu provi compassione a schiacciare un insetto?”, ha continuato. Se, dunque, secondo Eva, i medici erano dei ciarlatani e sadici criminali, secondo sua madre erano degli ottimi professionisti, uomini d’onore e intelligenti. Inconciliabili, un abisso profondo a dividerle: Eva è un’artista, un’attrice, precisamente; secondo sua madre, invece, la cultura è decadenza perché “la Germania ha bisogno di carattere” ed è con questa affermazione che spiega i roghi di libri propri del regime. Stava a loro vigilare anche sulla cultura.
La bambola è testimone di quanto accaduto in passato, è ciò che cerca di unire le due vite: il loro rapporto diverrà definitivamente insanabile nel momento in cui Eva, però, scopre la sua storia. Ad Auschwitz, racconta la madre, c’erano solo quattro camere a gas e chi si occupava degli ebrei “scansafatiche” aveva il dovere di velocizzare i tempi; capitava, dunque, che qualcuno non morisse e, spesso, i più forti erano proprio i bambini. Quando, invece, diventavano “polvere”, rimanevano integri solo i giocattoli da cui erano accompagnati. Come quella bambola.
“No, madre, non ti odio. Semplicemente non ti amo, non posso amarti” e, mentre lo afferma, Eva emoziona gli spettatori nel piccolo teatro in cui è facile sentire il pubblico piangere, rendendo l’aria ancora più magica. Spettatore della prima teatrale, l’assessore delle relazioni internazionali dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, i cui familiari sono stati sterminati ad Auschwitz (tutti, tranne suo padre). Ha spiegato come in una sola giornata sia sparita l’intera comunità ebraica di Roma, dopo 2200 anni di permanenza. Dei 1.022 bambini deportati, solo 16 sono ritornati vivi. Oggi, sono tutti morti. La Bambola Spezzata “è un atto di ricordo“, ha dichiarato, ricordando come nella storia gli eventi si ripetano anche se in forme diverse. E oggi ne abbiamo le prove.
Giorgia Cecca
stanzesegrete.it