Elezioni in Brasile: quando l’imprevedibile diventa regola
Il Brasile ha un nuovo Presidente della Repubblica, Jair Bolsonaro, che assumerà il suo ruolo il prossimo 1° gennaio. La sfida è di tutto il Paese, in uno scenario di insicurezza economica e frammentazione politica
Nella notte del 28 ottobre, in Brasile ci sono stati i fuochi d’artificio: era stata annunciata la vittoria di Jair Messias Bolsonaro, candidato di estrema destra del Partito Sociale Liberale (PSL), favorito nei sondaggi per la presidenza. Tre settimane prima era stato stabilito il ballottaggio tra lui e Fernando Haddad, candidato dello storico Partito dei Lavoratori (PT), formazione politica vincente per gli ultimi tre mandati presidenziali. Nel secondo turno, Bolsonaro ha ottenuto il 55% dei voti validi, contro il 45% del suo avversario.
Se il risultato è stato motivo di festa per molti, per tanti altri – più della metà della popolazione, se si considera il circa 30% tra astensioni e voti annullati – la sua elezione è fonte di preoccupazione e paura. Con un discorso fortemente segnato dalla repressione violenta del crimine – tramite la facilitazione del possesso delle armi, misure più severe di detenzione e l’apologia della tortura – e una storia politica che, tra l’altro, lo ha visto imputato in processi criminali per misoginia, razzismo e aggressione verbale, Bolsonaro preoccupa per le misure già annunciate dalla sua campagna. Tra di esse, la soppressione delle manifestazioni e dei movimenti sociali, la “departitizzazione” delle scuole (considerate da lui “propagandiere di una ideologia di sinistra”) e l’indebolimento o l’estinzione dei Ministeri della Cultura e dell’Ambiente. A ben vedere, man mano che la popolarità di Bolsonaro cresceva nei sondaggi, allo stesso modo è acuita la mobilitazione di protesta da parte di molti settori della società – politici di diversi orientamenti, giornalisti, artisti e organizzazioni sociali. Il tema ha meritato manifestazioni anche a livello internazionale, come quelle dei parlamentari europei, di personalità come Madonna, Roger Waters e persino il politico francese di destra Marine Le Pen.
La guerra dei social media
Capitano dell’Esercito in pensione, Bolsonaro si troverà ad essere il primo militare ad assumere il potere dopo la democratizzazione del paese, avvenuta dopo la fine della dittatura militare (1964-1989). La sua carriera politica si distingue per altre peculiarità: è stato, infatti, il primo candidato presidente a rifiutarsi apertamente di partecipare ai dibattiti televisivi durante la campagna per il ballottaggio. Pur avendo avuto solo 8 secondi di propaganda elettorale televisiva, è passato come un treno sopra i candidati dei partiti storici e le loro tradizionali tattiche di campagna nei media mainstream.
In effetti, il team di Bolsonaro ha puntato su una tendenza apparentemente percepita troppo tardi dai suoi concorrenti: l’enorme influenza di Internet e dei nuovi media sulla popolazione. Sin dall’inizio, mimando modelli già applicati con successo all’estero, il candidato outsider ha investito in massiccia presenza sui social network – il suo account Twitter ha circa 2 milioni di follower – e, soprattutto, nella diffusione di notizie tramite gruppi Whatsapp. Questa tattica è stata al centro di una delle più grandi polemiche nel corso della sua campagna, quando il quotidiano Folha de São Paulo denunciò che alcune aziende private avevano fatto forti investimenti in gigantesche reti di fake news destinate a rafforzare la sua candidatura e a minare l’immagine pubblica del suo avversario. La denuncia, formalizzata dai partiti di opposizione, è attualmente sotto inchiesta da parte della Corte Suprema Elettorale brasiliana e potrebbe, in un caso estremo (per quanto improbabile), portare all’impugnazione della candidatura dell’attuale presidente eletto.
Democrazia in crisi
Ma cosa porta una parte significativa della popolazione a sostenere e seguire un candidato con posizioni espressamente antidemocratiche? La risposta potrebbe essere in una tendenza mondiale d’indebolimento della democrazia stessa, come visto in tanti altri Paesi. Nel caso specifico del Brasile, uno scenario di crisi economica e istituzionale, che si è intensificato negli ultimi quattro anni, ha creato ancora più spazio per idee e soluzioni anti-sistema che flirtano con l’estremismo sociale. Basata su messaggi che esaltano delle soluzioni semplici e radicali a vecchi problemi, la campagna di Bolsonaro si è anche occupata di ammiccare alle forze del mercato, promettendo una politica liberale di privatizzazioni e di riduzione del controllo statale, oltre a contare sul forte sostegno del settore agroindustriale, uno dei più potenti e influenti dell’economia brasiliana.
La ricetta, evidentemente, ha avuto successo. Oggi, dopo il risultato delle urne, la prima sfida di Bolsonaro, che in 27 anni di vita pubblica è riuscito a far approvare soltanto 2 progetti di legge come deputato, sarà affrontare un Congresso Nazionale inesperto – il 52% dei deputati mette piede in parlamento per la prima volta –, e frammentato. Il suo PSL ha conquistato il 10% dei seggi, così come la principale forza di opposizione (il Partito dei Lavoratori). Il restante 80% è distribuito tra vari altri partiti, in buona parte di centro-destra. Un’altra sfida sarà quella di convincere la popolazione (compresi i suoi stessi elettori) ad accettare misure impopolari, come una riforma della Previdenza ancora più restrittiva di quella proposta dal governo attuale.
Infine, c’è la mobilitazione – anche se ancora non del tutto coordinata – delle nuove forze di opposizione: in primo luogo dei neo deputati progressisti eletti tramite mandati collettivi in forza a movimenti della società civile piuttosto che ai partiti tradizionali. In secondo luogo, gli altri movimenti civili, come le Donne Unite contro Bolsonaro, che hanno segnato l’opposizione durante la campagna ed hanno mobilitato milioni di persone. Per essi, la cosa più importante è che possa continuare ad esistere la possibilità di una società pluralista.
Nell’immagine in evidenza Jair Messias Bolsonaro (via twitter.com/CarloCeccon)