Quale futuro per la Sardegna? Intervista a Claudia Sarritzu
Claudia Sarritzu, classe 1986, è candidata alle prossime Regionali in Sardegna, in programma domenica 24 febbraio, con Massimo Zedda. Nella nostra intervista le abbiamo chiesto cosa ne pensa dell’attuale momento dell’isola e di come agire per far finire una crisi ormai duratura
Claudia Sarritzu, partiamo dal 2013, anno della pubblicazione del tuo libro “La Sardegna è un’altra cosa” (edito da Ethos), il cui sottotitolo è “Viaggio giornalistico nell’isola della crisi”. A 6 anni di distanza la tua regione si può definire ancora in crisi?
Sette anni di crisi economica hanno messo in ginocchio l’Isola: industrie fallite, inquinamento senza precedenti, campagne abbandonate, record di disoccupazione, mobilitazione dei lavoratori per mesi, corruzione, negozi chiusi, peculato, una profonda crisi della politica. Un terremoto che ha spazzato via una Sardegna che oggi cerca in qualche modo di rinascere.
Noi abbiamo sofferto più degli altri perché nell’Isola sono presenti multinazionali colpite e affondate a migliaia di chilometri da qui ma che qui hanno “ucciso” migliaia di famiglie che si sostentavano grazie a quei posti di lavoro creati da stranieri tra gli anni ’70 e ’80. Queste mega industrie hanno poi trascinato giù con loro le piccole-medie imprese che hanno accusato un forte calo della produzione, avviandosi anche loro sulla strada del fallimento.Ma le multinazionali non sono semplicemente andate via lasciando famiglie sul lastrico. Hanno anche scaricato sulla Regione il grave problema dell‘inquinamento. Pensiamo al Sulcis: qui moltissime aziende metallurgiche e siderurgiche sono finite sotto inchiesta per emissioni nocive e smaltimento improprio come la Portovesme Srl, l’Eurallumina, o l’Alcoa.
Ma il caso più significativo è quello della società Igea e Ifras che hanno ricevuto dalla Regione milioni di euro per bonificare le proprie miniere, ma di bonifiche non c’è traccia e nemmeno del denaro pubblico, che sembra sparito nel nulla tra clientelismo e malaffare. E poi c’è la Carbonsulcis, finita sotto inchiesta per aver speso 17 milioni di euro nell’acquisto di macchinari mai utilizzati.E oggi? È vero che siamo “guariti”? Sono 2.615 le aziende che in Sardegna nel 2017 hanno chiuso i battenti. Parliamo di un saldo negativo che tocca il 3,6%, con sole 1.236 nuove iscrizioni al Registro delle imprese. E la politica in questi anni non ha fatto in concreto nulla per permettere ai sardi di “guarire” dalla crisi.Dunque a quasi 10 anni dall’inizio della crisi, l’Isola ha recuperato appena il 92,7% dei livelli pre-crisi: solo sei regioni italiane si trovano in una situazione peggiore. Lo scrive la CNA in un’indagine sullo stato dell’economia in Sardegna.
Per capire quanto l’Isola sia rimasta indietro guardiamo all’economia nazionale che ha quasi raggiunto nuovamente i livelli del 2008, basta leggere il dato del 98%.Nell’Isola il settore artigianale è cresciuto con continuità fino al 2008, quando in Sardegna erano censite ben 43mila imprese contro le circa 35mila di oggi: il 28,5% del totale. Perché questo è un dato importante? Perché l’artigianato è uno dei motori dell’economia della Regione, facendo della Sardegna una delle economie italiane a più forte vocazione artigiana, ma durante la crisi scoppiata nel 2008 l’artigianato sardo è stato colpito da un vero e proprio dramma economico.
Alla fine del 2017 si sono contate rispetto al 2008 qualcosa come 7.660 imprese in meno, per uno stock attuale pari ad appena l’82% di quello pre-crisi.Per quanto riguarda il Prodotto interno lordo, l’ultimo dato ufficiale relativo al Pil sardo si ferma al 2016 quando il reddito complessivo prodotto da imprese ed individui si era attestato a 31,4 miliardi di euro (a valori 2010): il 90,6% del Pil del 2008 (34,7 miliardi di euro). Questo dato – si legge nello studio della Cna Sardegna – colloca l’economia sarda ben al di sotto della media nazionale, arrivata nel 2016 al 94,2% del livello pre-crisi, ma comunque al di sopra di altre sei regioni: Umbria, fanalino di coda con appena l’85% del livello del 2008, Molise, Sicilia e Calabria, ma anche Liguria (87,9%) e Valle d’Aosta (89%). Circa 8mila imprese in meno sono state censite dal 2008, ma vanno peggio le cose in termini di occupati. Nel 2017 i posti di lavoro registrati nell’Isola sono stati circa 562mila, contro i quasi 602mila del 2008 (40mila in meno). Se poi si guarda all’interscambio con l’estero, cioè la somma di importazioni ed esportazioni, la situazione del 2017, seppur in ripresa, si mostra ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma forse è il dato più confortevole.La ripresa c’è ma è lenta come una tartaruga.
La Sardegna soffre non tanto per la crisi del 2008 ma per i decenni precedenti in cui chi l’amministrava ha deciso di puntare su una economia completamente sbagliata, industriale e non turistica, sulle multinazionali e non sull’artigianato. W questo tessuto fragile oggi stenta a ricucirsi provocando un’altra terribile crisi, quella sociale. Sono questi i dati su cui riflettere. L’Isola perde ogni anno 1.700 giovani che vanno a costruirsi un futuro altrove. E non c’è da biasimarli visto che il tasso di disoccupazione giovanile si attesta al 56,3%. Se aggiungiamo il tasso di mortalità: la Sardegna ha perso quasi 5mila abitanti solo nel 2017. A fare le spese della crisi sono dunque i giovani dai 25 ai 34 anni e soprattutto le donne. Le generazioni nate tra il 1983 e il 1994 sono quelle che hanno perso il lavoro più facilmente e difficilmente ne hanno trovato uno nuovo. Più contenuto il calo in provincia di Nuoro, appena il 6,9%. Ma qui a perdere il lavoro, sono stati soprattutto i maschi.
Il tasso di occupazione femminile in Sardegna è ancora molto al di sotto di quello maschile. Se ad esempio in provincia di Sassari il tasso di occupazione della popolazione attiva è del 50,4%, solo il 42% di quei posti di lavoro è occupato dalle donne. Va peggio in provincia di Cagliari: su cento occupati 63 sono maschi e solo 37 donne. L’unica consolazione è che in questi ultimi anni l’occupazione femminile è aumentata a scapito di quella maschile, c’è infatti un buon segnale. Oggi ci sono più donne occupate rispetto a dieci anni fa. Ma il dato non deve creare illusioni. L’uguaglianza economica tra uno e donna è lontanissima in gran parte del pianeta e di sicuro anche in Sardegna.
La Sardegna dunque non sta per niente bene, non sono certo i locali pieni a indicare se una comunità è uscita dalla crisi. I risparmi dei sardi sono al minimo storico e semplicemente nelle città è cambiata la mentalità. Si conserva meno e si spende di più, si vive alla giornata in un mondo dove l’occupazione è precaria ed è diventato impossibile programmare un futuro. Uno spritz per dimenticare, come si suol dire.
In queste ultime settimane in tutta la regione è esplosa la protesta dei pastori sardi contro il calo del prezzo del latte ovino. Quale sarebbe la giusta soluzione secondo te?
Come dice il Candidato presidente del centro sinistra Massimo Zedda,”Quello che serve è un intervento immediato di legge, una misura per l’oggi, tampone, come già fatto a livello nazionale per il latte bovino attraverso l’istituzione di un fondo da almeno 20 milioni di euro“. Servono risorse per far fronte alle difficoltà di un sistema in cui le grandi centrali di raccolta del latte pagano troppo poco rispetto al costo di produzione. Il lavoro dei pastori non può essere sottopagato. Ma oltre l’intervento immediato noi vogliamo batterci perché ci sia un patto di filiera tra caseari e pastori, con la regione e lo stato garanti, perché maggiori benefici arrivino a chi produce. Zedda individua due priorità su tutte: “Intanto la puntualità nei pagamenti degli incentivi che saranno necessari per la diversificazione dei prodotti e la destagionalizzazione della produzione del latte. E poi l’attivazione di misure che rendano possibile l’accesso al credito per i pastori indebitati, in modo da aiutarli a ripartire. I pastori devono essere aiutati a fare sistema, per non essere vittime in solitudine di un quadro, come quello attuale, che strozza le loro vite, quelle delle loro famiglie e intere comunità. Altrimenti, come succede da quarant’anni, saremo sempre punto e a capo“.
Tu ti definisci femminista e hai dichiarato più volte in questi anni che la parola “femminismo” oggi fa ancora paura e che il termine non è il contrario di “maschilismo”. Ci spieghi cosa intendi?
Il mio saggio uscito per Palabanda edizioni, “Parole avanti” esiste perché vorrei che passasse un concetto per me essenziale e che vorrei fosse chiaro ai giovani, maschi e femmine, ma anche ai più anziani. Il femminismo non è il contrario di maschilismo. Femminismo è una parola bellissima. Partiamo dal vocabolario Treccani: Movimento delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), attualmente auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne. Mentre maschilismo, sempre dal Treccani, è un termine, coniato sul modello di femminismo, usato per indicare polemicamente l’adesione a quei comportamenti e atteggiamenti personali, sociali, culturali con cui i maschi in genere, o alcuni di essi, esprimerebbero la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne sul piano intellettuale, psicologico, biologico, etc. e intenderebbero così giustificare la posizione di privilegio da loro occupata nella società e nella storia.Il femminismo non vuole privare nessun essere umano dei propri diritti, non auspica a una società sbilanciata verso il genere femminile.
È un movimento progressista che lotta per la parità tra i generi, la libertà sessuale e il rispetto del corpo della donna, per i diritti di tutti quindi e non solo di una parte. Perché una popolazione femminile realizzata rende migliore anche la vita degli uomini. Il maschilismo invece non è un movimento sociale, non ha fondamenta storiche e non è legato a nessuna ben identificata esigenza da parte dell’essere umano. Il maschilismo è un atteggiamento presente in contesti sociali e privati che si traducono nella convinzione che gli uomini siano superiori alle donne. I principi sbagliati su cui si poggia questa tesi sono di carattere biologico, intellettuale, sociale e politico. Il primo è democratico, il secondo è tirannico.L’accezione negativa alla parola femminista è stata promossa in questo secolo e nello scorso da maschilisti e maschiliste. Il femminismo dunque si batte per la libertà di tutti. Il maschilismo per la supremazia di un genere sull’altro. Mentre l’indifferenza lascia tutto come è.
In un tuo recente post social hai scritto che “Restare è stata la prima rivoluzione della mia vita”. È il principale motivo che ti ha fatto decidere di affrontare la sfida elettorale di domenica prossima?
Esatto. In Sardegna nasci sapendo che a un certo punto dovrai scegliere dove vivere. Da una parte o l’altra della riva. A volte non è una scelta ma una costrizione dovuta all’esigenza di trovare lavoro. Io ho avuto la fortuna di poter fare la giornalista per un sito nazionale Globalist, dalla Sardegna. Ma questa fortuna non è arrivata per caso. Ho lavorato tanto anche gratuitamente per arrivare ad avere questo posto di lavoro. Non sono subito scappata in “Continente”. Ho cercato con tutte le mie forze di restare. Perché chi ama la Sardegna è la mia età ha il dovere di aiutare l’Isola a non morire. Siamo la regione con le nascite più basse e un tasso altissimo di emigrati. Restare è stata la mia rivoluzione in solitaria.