Storia di un oblio umano e universale
Il romanzo di Laurent Mauvignier prende vita al Teatro Franco Parenti di Milano: Vincenzo Pirrotta ci racconta come si possa morire per una lattina di birra
“Si può morire per una lattina di birra?” si domanda gridando addolorato e sussurrando sfinito il nostro protagonista accanto a un corpo morto che giace dentro a un sacco nero.
Pochi elementi in scena, pochi oggetti personali ma tra i quali, appunto, una lattina di birra. Ci accoglie così “Storia di un oblio“, il monologo portato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano (fino a domenica 10 marzo) che si rifa al romanzo francese Quel che io chiamo oblio dello scrittore Laurent Mauvignier.
Vincenzo Pirrotta, con la regia di Roberto Andò, in un’ora di parole tra coscienza e cronaca, ci fa rivivere l’assurda morte di un giovane ragazzo, maltrattato e picchiato in un supermarket da quattro agenti della security. Il movente è il grande assente della storia mentre la violenza umana la grande protagonista.
Pirrotta, che interpreta il fratello della vittima non riesce a darsi pace (né probabilmente mai riuscirà), ci fornisce un racconto dettagliato e spasmodico degli ultimi minuti di vita del ragazzo, spaventato e attonito che riesce soltanto a pensare “prima o poi la smetteranno“. E invece no, i quattro uomini non hanno placato la loro sete di prevaricazione ammazzando di botte un uomo innocente, violentandolo con gesti e parole.
Si può morire perché dopo una giornata di lavoro hai sete, entri in un supermarket e compri una birra? A quanto pare, in questo mondo, sì. La cosa sconvolgente che attanaglia il nostro unico protagonista in scenda (se si esclude l’ingombrante involucro) è che quei quattro uomini, senza nome e senza dignità, mentre usavano violenza provavano piacere nel farlo. Un piacere sadico e inumano.
Durante i sessanta minuti, nell’intima sala AcomeA del Teatro Franco Parenti, potrei giurare che molti degli spettatori seduti accanto a me abbiano dato un volto a quel corpo, rinchiuso per sempre un sacco nero. Il volto potrebbe essere quello di Stefano, Federico e di tutti gli uomini del mondo che sono stati, ingiustamente, vigliaccamente violentati da chi riconosce come unico mezzo quello della prevaricazione e della brutalità dei propri gesti. A conclusione, dal sacco nero esce una fotografia, lo guardiamo tutti in faccia. Di quell’uomo riconosciamo il volto tumefatto perché visto spesso in questi anni di lotte della sua famiglia per cercare pace e giustizia. Quell’uomo è Stefano Cucchi.