Cosa ho imparato in una giornata a Libri Come
(o del perché i festival culturali siano ancora tanto necessari). Un racconto concreto e spassionato di quello che si porta via da una celebrazione della cultura, con la consapevolezza che faccia bene al cuore
Domenica scorsa si è conclusa la decima edizione di Libri Come, festa del libro e della lettura, manifestazione consolidata nella Capitale che negli anni ha accumulato il suo discreto contingente di affezionati. Tra questi, ovviamente, c’è chi scrive, che non ne ha mai mancata un’edizione.
Libri Come è un festival piuttosto semplice: occupa per qualche giorno l’Auditorium Parco della Musica, con le sue sale lignee e l’aspetto maestoso, e consegna ai visitatori un programma fitto di incontri, lezioni e discussioni che pescano dal meglio che la letteratura nazionale (e non) abbia da offrire al momento attuale. In aggiunta, per idea degli organizzatori (Michele De Mieri, Marino Sinibaldi e Rosa Polacco), ogni edizione esplora una parola e questo era l’anno di “libertà“.
Armata di un panino prosciutto e songino e svariati caffé, ho affrontato la mia lunga giornata a Libri Come, che mi ha regalato materiale per le storie serali e un’infinità di spunti che non avrei saputo raccogliere altrove. Ho scoperto per esempio, in un incontro dedicato ai 10 anni di Wired, che Giacomo Papi (autore del Censimento dei radical chic) è vicino di casa di Maurizio Cattelan, l’artista del water dorato di “America“. Quest’ultimo ha sviluppato un’intensa ritrosia per le interviste e Papi è riuscito a carpirgliene una con una caccia al tesoro di domande e risposte, disseminate in un anonimo quartiere milanese. La storia si è conclusa con un messaggio che l’artista ha lasciato al suo intervistatore: “Trust me, I’m a liar“, gettandolo nello sconforto sulla validità delle risposte e nel più completo giubilo per la trovata geniale.
Ho avuto modo di sapere che Fabiola Giannotti, scienziata italiana a capo del CERN, è una creatura alquanto particolare e che si rifiuta categoricamente di considerarsi un esempio per chicchessia. Chi la intervistava per Wired, il fisico Massimo Temporelli, si è detto turbato da questa affermazione. Invece io, per la prima volta, ho pensato a quella incredibile donna sapiente e minuta come a una persona vicina, tangibile. Una donna brava in qualcosa che non vuole che se ne sottolinei la straordinarietà. Ecco mostrata l’immunità dalla malattia del tempo attuale: il voler essere sempre visibile, popolare, meglio degli altri. Contro la “Giannotti way” del voler essere brava solo per sé stessa.
Poi Edoardo Albinati, lui in persona, ha detto che non è mai esistito un genere letterario di nome “talk novel“. Cosa alquanto sorprendente con un nome così realistico. Mi erano anche venuti in mente una serie di titoli che certamente rientravano nella categoria, come le Operette morali di Leopardi o Emma di Jane Austen. Invece niente. Albinati, sempre lui, se l’è inventato per dare una definizione al suo ultimo titolo, “Cuori fanatici“. Bizzarro – ho pensato – vorrei anche io saper inventare generi letterari in estemporanea. Però mi è venuto in mente solo “terrifying humor“, che tira un linea dritta dai miti greci a Stefano Benni, ma non ne sono soddisfatta.
Ho pure scoperto che Isaiah Berlin, in un saggio molto fortunato, divide gli autori della letteratura russa secondo un verso archilocheo che dice: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Perciò Puškin era una volpe sublime, mentre Dostoevskij un riccio “purissimo”. Albinati, di suo, diceva di essere un Tolstoj, “una volpe convinta fermamente d’essere un riccio“. E ho pensato di esserlo anch’io.
Poi Gianrico Carofiglio ha detto che non gli piacciono i gialli, e io non potevo immaginare che a un magistrato non piacesse il tenente
Colombo. Diceva che è perché in quei libri l’investigatore ha sempre ragione, mentre nella vita vera non è mai così. Ha detto che invece gli piace molto una citazione di Goethe – “Gli errori rendono amabili” – e anche l’espressione “tenere sempre gli occhi aperti”. Ho poi imparato che “ciaraula” vuol dire strega in siciliano e che nel suo nuovo “La versione di Fenoglio” c’è una nonna che lo è. Prima di andar via ha detto che la cecità è il difetto più pericoloso della storia e che spesso la politica ne è affetta. C’è stato un lungo silenzio e poi un gran bell’applauso.
In un cantuccio del Teatro Studio Bogna ho osservato un botta e risposta quanto mai curioso tra Loredana Lipperini e Francesco Piccolo, due grandi menti e due voci limpide. L’oggetto era la libertà del maschio, basata sulla versione cruda e divertente che Piccolo ne dà ne “L’animale che mi porto dentro“. La Lipperini, femmina e femminista, lo incalzava con domande dirette e Piccolo, ghignante, iniziava sempre con “ho due risposte, una scontata e l’altra spero di no“. Serpeggiava tra il pubblico un divertimento diffuso, come a guardare una litigata sul grande schermo tra due persone che si rispettano profondamente. Ne ho tratto che uomini e donne non potranno mai somigliarsi, ma avranno sempre il dovere di conoscersi, per quel che può valere.
Ho portato a casa “I racconti delle donne” di Annalena Benini, e un senso di pace che assomigliava molto alla sensazione che suppongo debba provare una bottiglia che si riempie dopo tanto tempo di vuotezza. E non mi tolgo dagli occhi i disegni puliti di Mauro Biani, colorati vivacemente e pieni di dolore. Più di tutti uno sfondo rosso e una ragazza con i capelli al vento e gli occhi infossati, le parole bianche dicono solo: “Nessuno potrà dire: non sapevo. Diremo: sapevo, ma“.
A fine giornata ho provato a chiedermi cosa ci attragga verso i festival letterari, noi utenti medi e non, con la borsina di tela e il programma già cerchiato in rosso con gli appuntamenti immancabili. A parte ovviamente quella sensazione di godimento e malinconia che deriva dal sentir parlare qualcuno immensamente più colto e ricco di ingegno di noi. Forse la curiosità, certo, quella ulissiana verso tutte le bellezze che può contenere il mondo; oppure il desiderio tutto moderno di sembrare più intelligenti per la sola vicinanza con qualcuno che lo è davvero, sperando nell’osmosi. Infine, sono arrivata alla conclusione che lo facciamo per migliorarci, seguendo una tendenza che ci guida sin dall’età della Pietra. È cominciata con la ruota, i graffiti e i primi abbozzi di lingua parlata e finisce con tante persone che guardano ammirate Samantha Cristoforetti, che racconta com’è fatto lo spazio. E ho deciso che questa tendenza precisa, questa qui che ci fa alzare alle 7 di domenica mattina per non perdere l’annuncio della dozzina del Premio Strega, è la mia cosa preferita degli esseri umani.