La Nuova Zelanda sarà più la stessa?
L’attacco terroristico in Nuova Zelanda incide profondamente sul senso di sicurezza e integrazione percepiti; fa riflettere sul ruolo dei media, dell’appartenenza a istituzioni anacronistiche, delle reti sociali e sul diffondersi della cultura del risentimento
Quando la sicurezza di un Paese diventa il simbolo del Paese stesso e quando il terrore distrugge questo simbolo, non si può pensare che tutto torni alla normalità. Sarà necessario un tempo molto lungo per ripristinare i fondamenti della fiducia nei legami sociali. Allo stesso tempo non è pensabile che si possa seminare il terrore per il timore di decostruire quello che si considera l’essenza della “civiltà occidentale” o per timore che prevalga la cultura altrui.
La confusione creata dai media non garantisce alcuna qualità nel veicolare le informazioni; diventa impossibile trovare un nesso tra le idee confuse presenti sul web e capire quale idea rappresenta chi e quali sono i valori in gioco. La possibilità di accedere senza alcun filtro alle informazioni consente una stupidità quasi on demand, dove si cercano e si trovano significati e interpretazioni ambivalenti.
L’impossibilità di evitare la diffusione della violenza sui social network; le varie teorie complottiste, create allo scopo di distogliere l’attenzione; il ruolo ambiguo dei videogiochi e il ruolo univoco e senza possibile ambiguità delle armi, sono tutte questioni che mettono in evidenza l’urgenza di eliminare questa confusione, per evitare il diffondersi di un narcisismo difficilmente contrastabile.
La realtà è diversa dalle teorie che circolano sul web, il melting pot e l’abituale pacifica convivenza di un Paese come la Nuova Zelanda devono fare i conti con il numero in continuo aumento degli immigrati, e con il background storico, che da Reagan alla Thatcher in poi, ha contribuito negli anni a minare la stabilità lavorativa e a cancellare il sistema di sostegno sociale, dando potenzialmente il via a corsie parallele di rancore.
Se ci si sente in trappola, la trappola porta a ricorrere a processi di identificazione sempre più estremi. Quando la rete dei servizi pubblici non funziona più le persone si allontanano, non sono più disposte a trovare insieme soluzioni a problemi comuni. Una grande parte di responsabilità va attribuita anche alle controparti private che hanno lucrato sulle reti di sostegno, sull’iper-urbanizzazione e sui cambiamenti sociali e di integrazione mai affrontati in modo adeguato. Tutto questo ha dato il via a un processo di allontanamento fisico dai luoghi di partecipazione e di allargamento delle diseguaglianze sociali.
In un periodo di transizione post-americana verso un mondo non occidentale la politica è sostituita dal retaggio culturale: l’aderenza al Commonwealth rappresenta una questione irrisolta, dove Paesi che dovrebbero essere anni luce distanti dal concetto di euro-centrismo, come Australia e Nuova Zelanda, sono in sostanza “occidentali”, vuoi per motivi di appartenenza geografica (per storie familiari di emigrazione) che per geoeconomia (colonialismo).
I limiti di questa appartenenza falsata sono evidenti nel momento in cui si sperimenta il funzionamento delle politiche nel contrasto ai fenomeni terroristici. La cultura anglofona ci ha abituato all’idea del successo a tutti i costi, senza considerare che si può attirare l’attenzione anche commettendo atti infami verso altre culture o etnie.
Mentre si archiviano nella memoria collettiva un numero sempre più alto di fatti di inutile malvagità, crimini di odio generico che hanno come obiettivo titoli in prima pagina e momenti di fama alla Andy Wahrol, la diffusione di una cultura del risentimento prende piede, esaltando il sospetto verso la diversità e il disprezzo verso le istituzioni. Le stesse istituzioni che avrebbero invece il compito di stabilire la scala dei valori sociali, supportando chi si impegna a costruire in modo collaborativo, prevedendo e sviluppando un approccio deterrente ai fenomeni violenti.
Ma se c’è una qualità di uno tra i Paesi più civili al mondo come è stato e resta la Nuova Zelanda è la resilienza, il “rallying together” di una comunità ancora coesa, malgrado tutto, tra terremoti devastanti e ancor più devastanti odii, proprio perché inspiegabili.
Marta Donolo