I tanti perché dei disoccupati invisibili
Il fenomeno della “jobless society”, l’incertezza economica e l’incremento delle disuguaglianze sociali. Quali soluzioni per il mondo del lavoro?
C’è chi li chiama scoraggiati, chi sdraiati, chi bamboccioni, l’Istat li definisce inattivi, altri prendono a prestito un acronimo inglese Neet (Not in Education, Employment or Training). Giovani che non studiano, ma che nemmeno lavorano né cercano lavoro.
Chi riesce ad andare all’estero cerca di trovare un’occupazione lontano da un sistema che non riesce più ad offrire speranze. “Cervelli in fuga” che raramente ritornano, invisibili ai principali indicatori del mercato del lavoro, la nuova categoria degli inattivi ha ormai inondato il mercato della disoccupazione.
Scoraggiati, sebbene disponibili a lavorare qualora qualcuno offrisse loro un’occupazione, sono persone che non fanno parte della forza lavoro, inattivi che alla domanda posta dall’Istat “Qual è il motivo principale per cui non ha cercato un impiego nelle 4 settimane dal … al …?”, rispondono: “Perché ritiene di non riuscire a trovare lavoro”.
Alcuni sono convinti di non poter trovare un’occupazione perché troppo giovani o troppo vecchi, altri perché pensano di non avere le competenze richieste o più semplicemente perché ritengono che non esistano opportunità d’impiego nel mercato del lavoro locale.
L’aumento dell’insicurezza sociale comporta l’aumentare di fluidità, instabilità e condizioni precarie di vita e lavoro. Il fenomeno “jobless society” incide in particolare sui sistemi di formazione di competenze, sulla connessione tecnologia-produzione, sulla difficile inclusione nei cosiddetti green jobs.
I condizionamenti del mercato del lavoro sono dovuti in particolare alla tecnologia e a modelli di apprendimento in evoluzione. La vasta presenza di lavoratori marginali individua soggetti vulnerabili sia per percorsi di carriera che per retribuzione. La fluidità nel lavoro colpisce donne e giovani, che garantiscono l’utile discontinuità per aziende non disposte a pagare contributi e buste paga.
L’esperienza dell’incertezza sociale ed economica coinvolge soprattutto i lavoratori migranti, spesso occupati nel segmento secondario del mercato del lavoro e interessati da fenomeni di segregazione occupazionale, una categoria che è anche esposta alla disoccupazione di ritorno.
La stessa appartenenza territoriale diventa problematica, in quanto le politiche adottano modelli di governance di aree urbane di piccole dimensioni dove sono presenti situazioni di complessità amministrativa e di gestione di aree grigie. Il superamento del concetto di disoccupazione volontaria dovrebbe maggiormente incidere sulle politiche del lavoro.
La marginalità nel lavoro implica dunque una responsabilizzazione degli attori del mercato del lavoro, delle forme contrattuali, dei sindacati, dell’intervento pubblico e della necessità di nuove politiche di welfare e di redistribuzione della ricchezza.
L’esclusione dal mercato del lavoro si manifesta con la destandardizzazione, sia per le differenze tra lavoro precario e marginale sia per nuovi profili di rischio o esperienze di precarizzazione diversificate. I lavori atipici spesso si basano su percorsi di apprendimento meno lineari ma usufruiscono del processo di formazione di capabilities competitive, dovute al moltiplicarsi di esperienze nel tempo.
Le stesse esperienze che poi sono poco contabilizzabili per i chi assume. Il problema è ben rappresentato dal fenomeno di Amazon, multinazionale simbolo di sfruttamento, con lo scandalo dei braccialetti elettronici ai dipendenti, gli orari di lavoro inumani, il ricambio ai vertici, l’ossessione per il cliente e politiche competitive che incentivano il mobbing, quale ad esempio la richiesta di feedback sui colleghi.
L’incremento di disuguaglianze sociali implica la necessità di nuovi sistemi di welfare, nuovi modelli di distribuzione della ricchezza e percorsi formativi che facciano combaciare vecchie nozioni e nuove competenze. La scoperta dei cosiddetti disoccupati invisibili, che, un po’ come i lavoratori in nero, non vengono registrati come tali fa riflettere sul fatto che già per i disoccupati “ufficiali”, e perfino per chi un lavoro ce l’ha è difficile emergere e rendersi visibile.