“Il rumore del tempo”: la travagliata vita di Šostakovič raccontata da Julian Barnes
Un romanzo sullo scorrere rumoroso della vita del compositore russo Dmitrij Šostakovič. Un’amara riflessione sulla graduale morte delle vittime del terrore psicologico
A cinque anni* dal precedente romanzo, Einaudi pubblica “Il rumore del tempo” (collana Supercoralli), il nuovo libro di Julian Barnes, scrittore britannico già autore in passato di importanti romanzi come “Il pappagallo di Flaubert” e “Il senso di una fine“.
Caos anziché musica. Viene ripetuto spesso nel corso delle pagine che ripercorrono la vita e le vicissitudini musicali di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič (autore, tra le altre opere, del celebre Valzer n. 2, colonna sonora del film “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick), come un triste motto che accarezza ogni piega della mente del compositore e che ne soffoca tacitamente, lentamente, ogni forma di espressività.
Tutto comincia il 29 gennaio del 1936, all’indomani della rappresentazione della “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Šostakovič al teatro Bol’šoj di Mosca: la terza pagina della «Pravda» stronca l’esecuzione e accusa l’opera – e il suo compositore – di non essere assolutamente in linea con il gusto musicale del pubblico e con quanto quest’ultimo si aspetta dalla musica.
Una musica, a detta dei recensori, nevrastenica e confusionaria, tra le cui pieghe non vi è traccia di impegno politico. Caos anziché musica, appunto. Una stroncatura che va subdolamente ben oltre il giudizio artistico; un articolo che, sotto il potere di Stalin, può interrompere la vita.
Ma forse niente comincia proprio così, un certo giorno e in un certo posto. È cominciato tutto in tanti posti, e tante volte, alcune delle quali risalivano a prima del tuo venire al mondo, in paesi stranieri, e in paesi altrui, come ribattono i suoi stessi pensieri a Šostakovič.
Tutto in effetti ricomincerà, ciclicamente, nel tempo, con attori diversi ma seguendo schemi di terrore similari, al punto che Barnes utilizza una variante della stessa frase per introdurre il lettore nei tre momenti cardine della vita del compositore:
Sapeva solo che quella era la volta peggiore.
*
Sapeva solo che era quella la volta peggiore.
*
Sapeva solo che quella era la volta peggiore di tutte.
Scandita dalla condanna degli anni bisestili – 1936, 1948, 1960 – la vita del compositore e pianista russo viaggia tra le pause del suo respiro e i sempre più abituali colloqui col Potere.
Lenin trovava la musica deprimente.
Stalin era convinto di capirla e di saperla apprezzare.
Chruščëv la disprezzava.
Che cosa era peggio per un compositore?
Una condanna peggiore della morte immediata: il terrore, la perpetua sospensione, giorno dopo giorno, senza mai poter vivere realmente, senza la certezza delle conseguenze delle proprie azioni né dei discorsi che altri – dai piani alti del Potere – scrivono per lui e che si ritrova a pronunciare senza averne consapevolezza.
Ad aprire la serie di quei colloqui col Potere è un monologo interiore di tanto in tanto interrotto dall’inquietante rumore dell’ascensore che sale. Ricordi e pensieri che ogni volta tremano nella testa di Šostakovič, immobile sul pianerottolo di casa dove trascorre, insonni, quelle che potrebbero essere le sue ultime notti: vestito di tutto punto, la valigetta ai suoi piedi, pronto per andare incontro al Potere senza che sua moglie e la loro bambina vengano esposte al pericolo.
Nella Russia di Stalin non c’era posto per compositori costretti a scrivere con la penna tra i denti.
D’ora in poi ci sarebbero state solo due categorie di musicisti:
quelli vivi e terrorizzati, e quelli morti.
È così che inizia inconsapevolmente, spinto dalla corrente degli eventi, un rapporto ambivalente con un Potere che apparentemente si mostra protettivo e orgoglioso della sua musica ma che in realtà si fa scudo di quel falso accordo per trascinare Šostakovič dalla propria parte e mantenerlo col fiato sospeso per tutta la vita.
Un valzer di illusioni perdute, ma sedimentate dentro di sé, che va avanti per anni e anni e che fa del compositore un uomo morto dai 30 ai 69 anni.
Che importanza aveva un nome?
Era nato a San Pietroburgo, per cominciare a crescere a Pietrogrado e diventare adulto a Leningrado. O a Sankt Leninsburg, come si divertiva a volte a chiamarla.
Che importanza aveva un nome?
Cosa sarebbe rimasto della sua musica? Quanto avrebbero saputo i posteri di quella sua verità che non aveva avuto il coraggio di difendere?
Quella raccontata da Barnes è una storia che sembra ricostruirsi da sé dopo un lento e incessante crollo. La narrazione fa avanti e indietro tra la vita passata e presente di Šostakovič e gli avvenimenti che di quella vita sono stati la causa e che, malgrado tutto, la portano avanti.
Alcuni passaggi del libro presentano un crescendo di tensione che richiama il crescendo di diverse opere del compositore, in altri l’atmosfera diventa improvvisamente nostalgica, come accade musicalmente nel già citato Valzer n. 2.
Il tutto va a creare una frammentarietà che in certi momenti rischia di allontanare un lettore lievemente disattento ma che riesce comunque ad avvinghiare il lettore barnesiano, abituato allo stile spesso discontinuo dello scrittore britannico che ama giocare con il tempo e si diverte a spezzarne la continuità.
Forse, conclude Šostakovič attraverso le parole di Barnes, essere vigliacchi necessita di molto più coraggio dell’eroismo. Perché l’eroe si avvale di un unico, grande momento di rischio e di dolore, mentre chi è sprovvisto di quel coraggio, chi non può permettere che i propri cari – prima ancora che se stesso – cadano vittime del proprio eroismo, deve portare per sempre dentro di sé lo stridìo del rumore del tempo.
Il rumore del tempo
Julian Barnes
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi, 2016
Pp. 200, € 18,50
Alessandra Giannitelli
*articolo aggiornato all’8 giugno 2019
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