Musica in 3D: una tripletta di “nuovi” album ogni mese

Tempo di lettura 4 minuti
Bruce Springsteen, Sophie Auster e Black Keys protagonisti del primo appuntamento con la nostra nuova rubrica mensile sulla musica

I dischi selezionati non sono necessariamente stupendi o speciali ma si meritano l’ascolto lento, quello fatto con calma e attenzione, senza ricorrere allo skip da una canzone all’altra. Oggi parliamo dei lavori discografici recenti di 3 uomini e una donna: Daniel Auerbach e Patrick Carney ovvero i Black Keys, Bruce Springsteen e Sophie Auster.

Next Time – Sophie Auster

Quasi tutte le interviste e gli articoli che leggerete su questa cantautrice inizieranno molto probabilmente con “…figlia degli scrittori Paul Auster e Siri Hustvedt”, perché essere figlia d’arte è un onore e un piacere, ma anche una croce. Poi mettici che – oltre ad essere figlia di due scrittori americani (il padre, oltre ad essere autore di libri di successo come La Trilogia di New York, è anche regista, attore e produttore cinematografico) – Sophie è anche attrice, modella e una donna bellissima. E la musica spesso passa in secondo piano.

Invece Sophie Auster, con il suo terzo lavoro discografico Next Time, si presenta al pubblico con un album ricco di sfaccettature, complesso, che esalta le sue doti canore e la capacità di scrittura.

Per gli arrangiamenti, molto si deve al produttore svedese Tore Johansson: la Auster ha iniziato un rapporto epistolare basato su file audio al quale Johansson dalla Svezia rispondeva con idee e soluzioni da sperimentare.

Il risultato è stupefacente: in 12 canzoni, tutte diverse tra loro, Next Time esplora l’ampio spettro del pop rock moderno e contemporaneo, dal R’n’B al soul, pizzicando le fantasie pop del mainstream con la “sexy” Mexico dai ritmi latinoamericani (no, niente a che vedere con i tormentoni estivi da una botta e via).

 

 

Ballate al pianoforte con Black Water, accenni di soul con Dollar Man e poi trombe, chitarre e la giusta dose di elettronica rendono questo disco degno di un ascolto attento che accontenta tutti i gusti. A questo aggiungete una voce che ricorda a volte Tracey Thorn (Everything but the Girl) o Joan Wasser (Joan as Police Woman).

Non aspettatevi nulla nuovo o di rivoluzionario, ma un sapiente ri-utilizzo di sonorità che strizzano l’occhio agli anni Settanta unite a storie e strumentazioni contemporanee.

Western Stars – Bruce Springsteen

Ritorno alle sonorità e alle storie di un tempo (e un luogo) lontano anche per il Boss. Il critico musicale Jon Landau una volta scrisse: “[…] È una meraviglia da guardare. Magro, vestito come un reietto, sfila davanti alla sua band come un incrocio tra Chuck Berry, il primo Dylan e Marlon Brando […] ho visto il futuro del rock‘n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.

Era il 1974 e il critico musicale aveva visto da qualche giorno The Boss all’Harvard Square Theater. A quei tempi Bruce era un giovane rocker all’inizio della sua carriera discografica ancora poco conosciuto (il capolavoro, Born To Run, sarebbe uscito l’anno successivo). Da allora Springsteen è diventato una pietra miliare del rock’n’roll. I suoi live sono esperienze stupende, incredibili e uniche. Allora come adesso. E la sua carriera discografica è immensa quanto è immenso lui (19 album in studio, 6 dischi dal vivo e 8 raccolte ufficiali).

Avendo quindi fatto il futuro del rock’n’roll, con Western Stars il boss si permette un ritorno al passato. Come sempre scava a fondo nella storia americana in cui si muovono attori, stuntman e viaggiatori che raccontano e vengono raccontati in storie di ordinaria semplicità che a noi europei sembrano così lontane e per questo romantiche. Qualcuno l’ha definito un disco “cinematografico” ma ognuna delle tracce è un piccolo film, 13 piccoli capolavori da Oscar. Messa da parte la strumentazione rock per eccellenza  – basso, strati di chitarre e batteria – e vestendo i panni da direttore d’orchestra, Bruce tiene alto il suo nome anche quando non fa Rock.

Let’s Rock – The Black Keys 

Velleità di ritorno al passato (stavolta il loro) anche per i Black Keys che, nel 2019, hanno sentito l’esigenza di fare un disco come quando suonavano a 16 anni. O almeno questo è quello che ha dichiarato Daniel Auerbach. Non so se sia vero o solo una trovata commerciale. Fatto sta che dopo aver scalato le classifiche di tutto il mondo, sfornato hit come Lonely Boy e venduto milioni di dischi può essere che, ad un certo punto alla soglia dei quarant’anni, Daniel Auerbach e Patrick Carney abbiano sentito un po’ di nostalgia di quando erano adolescenti, senza un dollaro ma più liberi dalla morsa del music business.

E così per il nono album in studio, Let’s Rock, il duo dell’Ohio ha fatto di tutto per confezionare un disco per certi versi senza niente di speciale: niente picchi, nessun super singolo degno di nota che spicca tra le 12 canzoni. Forse Go, il terzo singolo estratto, avrebbe voluto aspirare ad essere un super hit estiva con il classico “oh-oh-oh” nel ritornello e un attacco che più estivo non si può In the summer time/ Getting hot outside/ The streets are bare/There’s no one there/And the valley is wide” ma probabilmente qualcosa non è andata per il verso giusto.

Per il resto è un album godibile e da ascoltare dalla prima all’ultima traccia proprio perché non eccelle in nessuna parte in particolare ma ti trascina in sonorità rock/blues rivisitate come da classico marchio di fabbrica della ditta Auerbach/Carney. Forse ascoltandolo l’unica operazione nostalgia la faranno i fan più sfegatati che rimpiangono i bei tempi di Brothers ed El Camino (correvano i primi anni del 2010). Ma è un buon disco che vi farà passare piacevoli 38 minuti e 34 secondi di musica.

Damiano Sabuzi Giuliani

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