Musica in 3D: i tre dischi per il passaggio dall’estate all’autunno

Tempo di lettura 6 minuti
I dischi selezionati non sono necessariamente stupendi o speciali ma si meritano l’ascolto lento, quello fatto con calma e attenzione, senza ricorrere allo skip da una canzone all’altra. Anche questa volta i protagonisti sono tre uomini e una donna: Frank Turner, Joan Baez e Black Pumas per il secondo appuntamento della nostra rubrica

Oggi parliamo dei lavori discografici recenti di 3 uomini e una donna: Adrian Quesada e Eric Burton vale a dire i Black Pumas, Frank Turner e Joan Baez.

No Man’s Land – Frank Turner 

La carriera di Frank Turner è decisamente atipica: inizia con un gruppo hardcore, i Million Dead, per poi inanellare da solista ben 8 album dal 2007 ad oggi. Carriera atipica perché nel giro di pochi anni passa dalle sonorità dure e massicce dell’hardcore al country e alle venature folk strizzando l’occhio al pop rock. Il cambio di stile e sonorità premia questo autore originario dell’Hampshire che dal 2011, con il disco England Keep My Bones, si afferma nel Regno Unito: insieme al gruppo lo supporta negli spettacoli dal vivo, The Sleeping Souls, suonerà alla Cerimonia di apertura dei Giochi della XXX Olimpiade a Londra nel 2012.

La ricetta perfetta di Frank Turner è un mix tra punk, folk e pop. Frontman di grande personalità, è un artista che dà il meglio sé più sul palco che in studio. Vi consiglio in proposito di vedere lo show del 13 aprile 2012 alla Wembley Arena di Londra.

Ho avuto il piacere di vederlo dal vivo al Bay Fest lo scorso agosto, pochi giorni prima dell’uscita del suo nuovo disco, No Man’s Land. È stato lo show più bello ed entusiasmante di tutta la rassegna sebbene conoscessi ancora poco di quest’artista. Turrner era un vulcano di energia anche dopo aver passato gran parte del pomeriggio a salutare i fan e rilasciare autografi sotto il sole torrido di ferragosto.

E con questo arriviamo al punto: perché ascoltare No Man’s Land?

A questo disco manca un po’ di carattere e in alcune tracce avrebbe potuto osare di più per rendere le singole storie più accattivanti. Ma è un disco abbastanza tondo ed efficace. Si caratterizza inoltre per una peculiarità decisamente interessante: al centro e dietro l’intero album ci sono le donne.

Al centro dell’album, perché le canzoni sono dedicate a 13 personaggi femminili. Donne importanti come Sister Rosetta Tharpe, pioniera della musica gospel che si guadagna un posto di riguardo nella storia della musica soprattutto per i suoi lavori negli anni Trenta: elaborò sonorità blues e gettò le basi di quello che sarà poi il Rock’n’Roll influenzando artisti del calibro di Chuck Berry e Elvis Presley. Altre donne presenti nel disco sono Mata Hari, Catherine Blake e Rosemary Jane. Questi ultimi due nomi sembrano dire poco al grande pubblico e per essere più chiaro sono costretto ad utilizzare forme lessicali terribili e decisamente poco gender sensitive ovvero “moglie di…” per inquadrare la compagna di vita del poeta William Blake e “madre di…” in quanto Rosemary è la madre dello stesso Turner.

Dietro l’album, perché una band di sole donne ha supportato Frank nella registrazione: Anna Jenkings e Gill Sandell (strumenti a corda e piano), Holly Madge (batteria), Andrea Goldsworthy (basso) e Kat Marsh (cori). Un’altra donna, Catherine Marks, alla produzione.

Tutte questa donne (le 13 raccontate nelle canzoni + le 7 in studio accanto a Turner) inevitabilmente accentuano l’emotività e la sensibilità di questo lavoro da ascoltare tutto d’un fiato per poi fermarsi un attimo ed esplorare le singole storie di donne che, a volte senza volerlo, sono passate alla storia.

Live at Woodstock – Joan Baez 

Sempre ad agosto, ma cinquant’anni fa, viene realizzata una manifestazione musicale a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York. Il Festival è passato alla storia come “Woodstock”, una tre giorni di pace e di musica rock. Diversi gli artisti che si sono alternati sul palco in una manciata di ore che – secondi alcuni – non solo hanno cambiato la storia della musica, ma anche della società tout court. Nel corso di questo mezzo secolo tante cose sono state dette su questo festival, sorprendentemente molte da chi non c’era. 

Ma chi c’era veramente al festival di Woodstock in quell’estate del 1969? 

Sicuramente gli artisti sul palco, alcuni dei quali diventati vere e proprie icone del rock. Gruppi come The Who, Creedence Clearwater Revival, Jefferson Airplane e artisti immortali come Joe Cocker, Janis Joplin o Jimi Hendrix che con le loro esibizioni hanno lanciato sogni e conquistato un posto di primo piano nell’olimpo del rock‘n’roll. 

Tra i tanti nomi in cartellone c’era anche Joan Baez, al sesto mese di gravidanza, che ha chiuso la prima giornata.

https://www.youtube.com/watch?v=pj_9KshfQuw

 

E allora perché tra le tante produzioni di repertorio, remake e rimasterizzazioni scegliere proprio Joan Baez?

Una spiegazione è sicuramente quella musicale. Tra le tante registrazioni live, quella dello show della Baez è una delle migliori: non solo perché le condizioni climatiche ed ambientali erano più favorevoli alla registrazione (era il 15 agosto, la giornata dedicata alla musica folk, e ancora non c’era il delirio delle due giornate successive), ma anche perché la splendida voce di Baez accompagnata dalla chitarra acustica non ha richiesto particolari e complesse attrezzature per la registrazione. 50 anni dopo il lavoro di remastering di questo disco ci riporta alla vera essenza dello spirito della summer of love rendendo ancora vive le emozioni di quella serata. 14 canzoni che iniziano con una toccante versione di Oh Happy Days e finiscono con We Shall Overcome, onnipresente negli spettacoli live della Baez.

L’altra spiegazione invece è più politica: sebbene Joan Baez non abbia avuto nel tempo la stessa notorietà e popolarità di altri colleghi presenti in quella tre giorni di festival è decisamente l’artista che più di tutti ha fatto della battaglia per i diritti civili un credo, una vera e propria vocazione. Nominate uno degli eventi che hanno scandito la storia degli ultimi 50-60 anni, uno qualsiasi. Lei c’era. Era a fianco di Martin Luther King durante la sua marcia. In Vietnam durante il bombardamento di Natale voluto da Nixon. A Praga con Vaclav Havel. In Bosnia nei primi anni 90.

Insomma, volete davvero rivivere lo spirito di pace, uguaglianza e amore? Mettete su un tè e ascoltate questo disco.

Black Pumas – Black Pumas 

Novità assoluta invece l’album omonimo dei Black Pumas alla loro prima avventura musicale. Anche se sembra più un progetto che un gruppo vero e proprio, dietro questo gruppo si celano Adrian Quesada e Eric Burton. Pare che la storia sia andata più o meno così: Quesada e Burton si incontrarono ad Austin, in Texas, per merito di un amico comune che sentì Burton mentre suonava per strada nel centro di Austin. I due musicisti si sono piaciuti e hanno unito le forze pubblicando questo disco che vi invito caldamente ad ascoltare.

Anche se è un disco che gioca molto sull’effetto nostalgia grazie ad un sound che strizza l’occhio alla Motown e più in generale al jazz-rap, al soul e all’R&B. Prende la sua forza proprio dalle sfumature di questi generi senza stravolgerli e purtroppo senza neanche riuscire ad innovarli. È ovvio che l’intero progetto è stato studiato ad arte per scaturire quell’effetto Déjà-vu ma, proprio perché tanto sfacciato e onesto, merita.

La struttura musicale è minimale basata su tempi asciutti, un assetto strumentale che potremmo definire “acustico” arricchito da organo, fiati e cori che non risultano mai invadenti. Il tutto arricchito dalla duttilità vocale di Burton.

Insomma, in un’epoca in cui la musica ha smesso di evolversi e si pesca sempre più dal passato (e su questo aspetto vi consiglio di leggere la lunga analisi fatta da Simon Reynolds), questo lavoro è uno dei migliori esperimenti usciti nel 2019 e spero vivamente che i Black Pumas continuino con questo stile anche in futuro.

 Damiano Sabuzi Giuliani

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