Un romanzo per non dimenticare: Le ragazze di Ventas di Dulce Chacón
Dulce Chacón ha l’eccezionale capacità di tessere le storie di donne e uomini come fili di un telaio, intrecciandole con cura, rispetto, attenzione e amore. A lavoro ultimato ne risulta un romanzo corale, l’affresco di una dolorosa umanità che resiste
Ricordo quando, forse adolescente, mi resi conto che in Spagna la dittatura era finita da poco. Nel 1975 non ero ancora nata. I fatti che dei decenni post guerra – gli anni cinquanta, sessanta e settanta – mi venivano raccontati erano altri.
La lotta per i diritti civili, Martin Luther King, Woodstock. Il Vietnam, la guerra fredda, il Muro di Berlino (anche lì faticai a comprendere questa cosa di un muro eretto mattone dopo mattone per dividere e isolare: veramente si ergono muri intorno alle persone? Ora lo so, anche se ancora mi sembra allucinante che i muri esistano o che si costruiscano ancora). L’allunaggio, il ‘68 e il cambiamento culturale degli anni ’70.
Il mondo andava avanti. Lo facciamo tuttora di fronte a situazioni aberranti in tanti Paesi. Le persone vanno avanti in una capacità di resilienza che forse ha garantito, più di altri fattori, la sopravvivenza del genere umano nel corso dei secoli. Negli anni Settanta i miei genitori si erano già conosciuti, andavano a scuola insieme, si diplomavano, mia madre si laureava e di lì a poco si sarebbero sposati.
E mentre tutto questo nel bene e nel male succedeva nel mondo, gli spagnoli, i nostri “vicini di casa”, venivano lasciati soli e continuavano a vivere in un regime dittatoriale.
Noi italiani oggi ricordiamo, sempre meno di quel che sarebbe giusto, la nostra resistenza. I vecchi partigiani ne portano il ricordo e lo trasmettono. E ogni volta che ci penso mi sento fortunata, tanto fortunata che la storia italiana sia andata così, nonostante ritornare con la memoria a quegli eventi sia sempre doloroso.
Fortunata sì, perché invece la resistenza spagnola ha avuto purtroppo altri esiti.
Mentre noi ci leccavamo le ferite dopo la seconda guerra mondiale, il regime di Franco ha punito duramente e recluso e perseguitato chi aveva lottato per la Repubblica o chi non aderiva pienamente e con entusiasmo ai valori del regime.
Ho letto per la prima volta Le ragazze di Ventas almeno dieci anni fa. Ero più giovane e leggevo in un’altra lingua e forse per questo mi facevano meno male certe cose. Ma già allora ne soffrii e il libro mi restò per sempre dentro. L’ho riletto di recente in italiano e mi ha devastato.
Ma andiamo con ordine: partiamo dal titolo. Il titolo originale è La voz dormida, che a mio parere rende meglio l’essenza di questo libro rispetto al titolo con cui è stato pubblicato in italiano, Le ragazze di Ventas. La voz dormida (potrei tradurlo con ‘la voce sopita’) è la voce, quella delle donne che hanno fatto la resistenza spagnola, che a lungo, troppo a lungo, è rimasta sopita, sepolta, ignorata.
E Dulce Chacón, autrice spagnola che riesce a dilaniarmi cuore e viscere ogni volta che la leggo, ha raccolto quella voce. Ha raccolto, attraverso ricerche e interviste, le testimonianze di tante donne e tanti uomini, tra cui anche quella di Josefa che ha ispirato la Pepita del romanzo e che è morta qualche anno fa a 93 anni.
Perché per rendere omaggio a quelle donne e a quegli uomini che il regime ha distrutto è doveroso raccontarne la vita. Non solo la loro prigionia e la forza con cui l’hanno affrontata, con il coraggio di ridere ancora e di cantare e di stringersi l’una accanto all’altra. Ma anche la storia di vite ordinarie stroncate da ritorsioni e rastrellamenti del regime, o dai pettegolezzi dei vicini.
Il romanzo, in quanto tale, trae così ispirazione dalla realtà (la maggior parte delle storie raccontate nel libro purtroppo sono vere), tesse e intreccia le vicende e accosta, attraverso una narrativa di finzione, personaggi realmente esistiti, personaggi di fantasia e personaggi che, ispirati a persone vere, non pretendono esserne una rappresentazione integrale.
C’è la storia di Pepita, dunque, e di sua sorella Hortensia che è reclusa nel carcere femminile di Ventas. Sposata con Felipe, il Cordobés che vive in clandestinità, Hortensia ne aspetta il figlio. Aspetta anche il processo che la condannerà a morte.
C’è la storia delle donne che sono a Ventas insieme a lei: Tomasa, Reme, Elvirita e tante altre. La loro colpa quella di essere repubblicane. E il regime le ha punite, uccidendone mariti e figli dove la povertà e la fame non c’era riuscita, torturandole e incarcerandole.
C’è la storia di chi per quel carcere è passato come le Tredici Rose, tredici giovanissime ragazze – per lo più minorenni – condannate a morte per un attentato commesso quando molte di loro erano già in carcere.
E c’è la storia di chi, come Pepita, è rimasta fuori dal carcere ma vive portando il lutto, nella paura delle ritorsioni, crescendo la figlia di una sorella fucilata a morte, aspettando per anni un fidanzato prima in clandestinità e poi recluso.
C’è la storia di chi non è in carcere e lotta a suo modo e resiste. Come donna Celia che ha visto la figlia portata via da due falangisti e non l’ha più rivista. Non ha potuto nemmeno lavarle la faccia e chiuderle gli occhi dopo la fucilazione, prima che venisse gettata in una fossa comune. E allora ogni mattina si nasconde in una cappella del cimitero, trattiene il respiro e le lacrime sentendo i colpi di mortaio e quando le guardie vanno via sgattaiola fuori per tagliare un lembo di stoffa ai vestiti dei morti e lo porta ai parenti che hanno saputo della fucilazione e attendono fuori. E chi riconosce da quel pezzettino di stoffa il proprio caro corre in fretta a lavargli la faccia e a chiudergli gli occhi.
Dulce Chacón in Le ragazze di Ventas ha una capacità eccezionale di tenere tutte queste vite insieme, di tessere queste storie come fili di un telaio intrecciandole con cura, rispetto, attenzione e amore. A lavoro ultimato ne risulta un romanzo corale, l’affresco di una dolorosa umanità che resiste.
La voz dormida in Spagna è stato trasposto in un film che non ho voluto vedere. Ne ho visto però l’adattamento che è stato portato nei teatri spagnoli: un’unica impressionante attrice, Laura Toledo, che nelle vesti di Pepita riempie il palco e tappa dopo tappa ridà voce a quelle donne, a quella storia. Per non dimenticare.
Ho avuto modo di assistervi a Siviglia nel marzo scorso e nonostante io non abbia la padronanza completa della lingua e mi sia probabilmente sfuggito qualcosa, mi sono trovata in lacrime come tutte le persone intorno a me che a fine spettacolo si sono alzate per applaudire con gli occhi lucidi, i lacrimoni e i fazzoletti torturati.
Una dolorosa testimonianza dunque per ricordare, per restituire dignità alle persone cui il regime voleva toglierla e non c’è riuscito mai. Ricordare per non dimenticare e fare tesoro della storia. Ricordare per non chiudere gli occhi di fronte al ripetersi di tanta crudeltà a più riprese e a varie latitudini.