Cile in rivolta: quale via di uscita?

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Il governo cileno è accusato da Amnesty International per gravi violazioni dei diritti umani mentre cresce il timore per un’imminente recessione

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La grande manifestazione di protesta a Santiago del Cile, il 25 ottobre 2019 (Fonte immagine: AP Photo)

È guerra civile in Cile, dove da cinque settimane non c’è respiro tra scioperi generali, manifestazioni della popolazione cui hanno risposto le forze dell’ordine con dure repressioni.

Sia la parte civile che le forze dell’ordine escono decisamente sconfitte da queste settimane di sangue: scontri e manifestazioni, anche quando sono iniziate come pacifiche, hanno fatto contare 23 morti, 2.390 feriti e oltre 18.500 arresti così come segnalato dall’Istituto Nazionale dei Diritti Umani mentre il Governo dichiara oltre 2.200 feriti e attacchi distruttivi a 188 commissariati e a 971 veicoli.

E non ci sono solo perdite umanitarie: dopo oltre 40 giorni di tensioni sociopolitiche si contano danni a infrastrutture pubbliche ed esercizi commerciali piccoli e grandi e, adesso, il rischio di una crisi economica e di una recessione tecnica si fa sempre più concreto. La popolazione è scesa in piazza nella capitale il 18 ottobre, per chiedere riforme sociali ed economiche: adesso gli animi sono esasperati anche per l’operato delle forze dell’ordine accusate di strategie punitive che hanno portato alla violazione di diritti umani.

Al fianco dei cileni, Amnesty International ha denunciato un ricorso alla violenza con fini punitivi e intimidatori da parte di polizia e carabinieri: finora, ha documentato 23 casi di violazioni dei diritti umani nelle regioni di Valparaíso, Tarapacá, Bío-Bío, Antofagasta, Coquimbo, Maule e Araucanía, nonché in 11 comuni della Regione Metropolitana di Santiago tra il 19 ottobre e l’11 novembre.

Inoltre, fa sapere l’ONG attraverso la sua pagina web, sono stati raccolti oltre 130 tra filmati e fotografie – già verificati dal suo Corpo di verifica digitale ed esperto di armi e munizioni – dove è provato l’uso non necessario ed eccessivo della forza durante interventi per ristabilire l’ordine pubblico. A questo si aggiunge l’ostruzione delle autorità che in diverse occasioni “Hanno ostacolato il lavoro di avvocati, difensori dei diritti umani e personale medico, impedendo loro di accedere a stazioni di polizia, ospedali e centri medici”, come si evince ancora dalla relazione di Amnesty.

La situazione in Cile non può continuare così. Le autorità devono garantire che i difensori dei diritti umani e le organizzazioni della società civile possano continuare a svolgere il proprio lavoro liberamente, senza alcuna forma di pressione, minaccia o rappresaglia“, ha affermato Ana Piquer, direttore esecutivo di Amnesty International Cile.

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Fonte immagine (Contropiano.org)

Amnesty sostiene la popolazione cilena nel chiedere un immediato intervento del Governo per mettere fine alla repressione in atto con conseguente individuazione dei responsabili e ottenere, successivamente, ad una riforma delle forze dell’ordine per garantirne il controllo dell’operato.

Ma come si è arrivati a tanto? Anche in Cile, come spesso accade nelle rivolte civili, le prime dimostrazioni sono iniziate per difficoltà quotidiane, come l’aumento della tariffa della metropolitana nella capitale, Santiago, per poi diffondersi rapidamente in tutto il Paese per l’alto prezzo dell’assistenza sanitaria e scarsi finanziamenti per l’istruzione richiedendo un intervento solido da parte dello Stato.

Ma la rabbia che ha portato le persone in strada è la forte diseguaglianza che affligge la popolazione. In un generale panorama economico migliore rispetto ad altri Paesi latini, la forbice sociale è molto forte. Dati della Banca Mondiale stimano che solamente l’1% della popolazione detenga il 26% della ricchezza.

Altro aspetto fondamentale delle rivendicazioni è la rivisitazione dell’attuale costituzione, che risale al 1980 ed è mal vista dalla società civile in quanto ritenuta retaggio della dittatura militare di Pinochet e dell’economia neoliberista dell’epoca.

Il Presidente Sebastian Piñera, al suo secondo mandato, si muove in due direzioni: da una parte sta cercando l’appoggio del Parlamento per un progetto di legge che gli permetta di impiegare anche i militari senza ricorrere allo Stato di Emergenza, confermando la sua indole reazionaria e conservatrice, dall’altro cerca di calmare gli animi: la scorsa settimana ha raggiunto un accordo con l’opposizione per indire un referendum costituzionale. Il prossimo Aprile i cileni andranno alle urne per approvare, o meno, il cambiamento – sondaggi attuali stimano un appoggio del 85%.

Ha, inoltre, messo mano alla spesa pubblica, con particolare attenzione alle fasce più anziane della popolazione. Tra le misure concordate compare la riduzione fino a metà del prezzo del trasporto pubblico per gli over 65 ed un aumento graduale delle pensioni fino a raggiungere un 50% nel 2022. Il nuovo patto andrà a vantaggio di circa un milione e mezzo di persone. Parallelamente è stato aumentato l’investimento pubblico per la sanità dell’11%, per raggiungere il 4,6% del prodotto interno lordo (PIL): obbiettivo che, comunque, lascia il Cile al di sotto della media dei paesi OCSE, che si attesta intorno al 6% per le spese sanitarie.

Le misure intraprese fino a questo momento hanno avuto scarsa presa su una popolazione che ha rimesso in discussione l’intero operato del Paese.

Sara  Gullace

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