Diario di una mezza quarantena
La quarantena mi ha colta impreparata. Più che impreparata, sola. Sola veramente, col gatto per la precisione. Ci mancava il virus
All’inizio sembrava tutto meraviglioso, una specie di vacanza. Si vabbè, si sta a casa, ok non si può uscire, ma pranzare con Federica che vive a 300 metri da casa mia non è proprio “uscire”, no?
Nei negozi fanno entrare due alla volta? Meglio, era ora che anche questi frascatani imparassero un po’ di rispetto per le file e gli spazi chiusi.
“Oh, approfitterò di questa quarantena per fare attività fisica tutti i giorni!”, pensavo “farò come i carcerati che nell’ora d’aria sollevano pesi ed escono dalla galera con dei fisici da culturisti”.
L’11 marzo i miei piani salutisti vengono spazzati via dal decreto Conte: col cazzo che vai in giro a farti le passeggiate, te ne stai a casa per il bene di tutti ma “non ti preoccupare, ce la faremo”.
Ce la faremo. Una vita a ripetermelo.
Probabilmente, chi si lamenta di questa quarantena, non è mai stato precario ad agosto.
Essere precari ad agosto vuol dire molto spesso temperature afose in città deserte, amici lontani perché in vacanza (con relative foto Instagram in cui ti spiattellano la loro felicità e spensieratezza), nessun soldo perché i contratti di lavoro (che non hai) non prevedono ferie.
Non mi pesa la quarantena forse perché sono abituata a stare da sola, ad avere gli amici lontani che hanno inseguito le loro passioni altrove, perché sono abituata alla precarietà delle cose, perché da ex immunodepressa capisco l’importanza di starmene a casa senza creare pericoli per nessuno.
Non è male, intendiamoci: il mio pensiero va spesso a quelle persone che vivono insieme non si sa bene per quale motivo e a come questa convivenza forzata inciderà sulla rottura di relazioni di vario tipo. Alla fine faccio come mi pare, il gatto sembra essere piuttosto tollerante nei miei confronti.
Sono un’insegnante e sento il dovere morale profondissimo di essere ottimista per i miei alunni. Loro alla quarantena hanno reagito come me: prima si godevano il tempo libero come delle vacanze anticipate, poi hanno iniziato a diventare cupi e preoccupati. Li sento tutti i giorni per telefono. La didattica ovviamente è cambiata: faccio molte lezioni via Skype, WhatsApp – di solito bandito durante le mie lezioni – si è trasformato in un validissimo alleato, faccio video in cui spiego il teorema di Pitagora, le proporzioni, ma anche in cui racconto storielle o canto (male) canzoni.
Quello a cui penso di più in questa quarantena, è il dopo. Penso a quanto questo periodo ci farà pensare alle priorità che ci siamo dati nel tempo e a quanto queste vadano riordinate. Nella mia vita pre-virus le mie giornate erano scandite da orari rigidissimi, un puzzle ipertrofico di attività da svolgere in cui perfino gli affetti dovevano essere ben programmati tra gli impegni di lavoro e la stanchezza che, inesorabile, arrivava a fine giornata.
Ci si lamentava del fatto che avremmo voluto giornate più lunghe di 24 ore per fare tutto quello che avremmo dovuto e ora che abbiamo visto quanto dura veramente un giorno, mi chiedo se le persone saranno di nuovo disposte a continuare ad arrancare, a correre dietro orari che non sono i loro, a considerare il lavoro, anche nelle sue versioni più logoranti e svilenti, in cima alle proprie priorità.
In cima, perché in anni di abitudine al precariato e al lavoro sottopagato, ci hanno insegnato che si muore di bollette non pagate e di debiti, di una morte lenta e vergognosa. Per la malattia ci sono i farmaci, ma per l’indigenza c’è solo il sacro lavoro, quello che dovrebbe nobilitare l’uomo ma spesso si riduce a togliergli la dignità. Mi chiedo se saranno disposti a tornare alle loro vite precedenti, ai loro lavori.
Mi chiedo se ci riuscirò anche io.
Federica Albano