Tra guerre e tumulti, il significato di “isolamento” prima del Coronavirus
Mentre la quarantena e l’isolamento stanno mettendo a dura prova alcune persone che hanno visto la loro vita cambiare radicalmente, ci sono altri che hanno già sperimentato questa situazione
A oltre metà delle persone nel mondo è stato ordinato di rimanere a casa, in isolamento. Per alcuni, ciò significa abituarsi a un nuovo modo di vivere. Ad altri, invece, ricorda periodi precedenti della loro vita passati a rifugiarsi in un altro posto, non durante una pandemia come quella causata dal COVID-19, ma in momenti di tumulti e disordini politici. Il Washington Post ha pubblicato una raccolta di testimonianze, a cura di Miriam Berger, Siobhán O’Grady e Ruby Mellen.
Siria
Il 34enne Ghaith Alhallak ha cominciato il suo secondo mese di isolamento a Padova, in Italia. Passa molto tempo online, seguendo lezioni universitarie, e raramente si avventura all’esterno. “Si riesce a sentire la tristezza per le strade” ha dichiarato. “Ogni giorno ci sono molti morti”. E lui conosce bene quella sensazione.
Sette anni fa, Alhallak si è già trovato in isolamento, ma in circostanze del tutto diverse. In quanto soldato dell’esercito siriano, ha subito l’assedio dei ribelli nel Ghouta, vicino Damasco, ed è stato costretto a lottare per il governo di Assad, al quale si opponeva. Ha passato circa 60 giorni, quella primavera, accucciato a terra, con poca acqua e, a volte, senza nulla da mangiare se non erba bollita. Quello stesso anno Alhallak ha disertato, scappando in Libano. Nel 2016 ha raggiunto l’Italia in quanto rifugiato politico.
Secondo quanto ha dichiarato, le misure di controllo sociale per fermare la diffusione del Coronavirus messe in atto dall’Italia sono totalmente diverse dalla sua esperienza in quel periodo di guerra. “È diverso perché qui mi fido”. Il governo italiano “non ti lascerà senza cibo”. Invece, la situazione in Siria era fuori dal suo controllo. “Ma ora è diverso. Ci sono molti modi per passare il tempo, non c’è solo la paura di morire”.
Tuttavia, in Siria ha avuto modo di pensare a cose che possono essere utili anche in questo periodo in Italia. “Nessun problema dura per sempre. Anche se ci vorrà molto, si troverà una soluzione”, ha affermato. “Abbiate pazienza”.
Cisgiordania
Durante l’epidemia di Coronavirus, Mariam Barghouti si riesce a distrarre con le ricette della sua infanzia, dell’inizio degli anni 2000, durante la seconda intifada palestinese contro l’occupazione israeliana. I numerosi tortini di spinaci che sua madre cuoceva e congelava per i periodi più difficili. Le zuppe che cucinava sperando di rinforzare le difese immunitarie. Il fatto che tutto, in cucina, aveva più di uno scopo.
“Devi essere felice, devi essere felice”. Mariam ricorda ciò che ripeteva sua madre mentre rimpinzava lei e i suoi fratelli di cibo o li faceva correre in casa per mantenerli in forma. Barghouti è una scrittrice di Ramallah, in Cisgiordania, dove il governo semiautonomo palestinese ha vietato gli spostamenti da una città all’altra e ha impostato un coprifuoco per rallentare la diffusione del Coronavirus. Spostarsi in Israele è proibito.
È stranamente familiare, ma anche diverso, ha dichiarato. “La reazione iniziale alla pandemia è stata: oh, rieccoci. Dobbiamo trovare nuovi modi creativi per superarla”. Durante l’intifada, l’esercito israeliano aveva imposto un coprifuoco, e la gente viveva con la paura di subire violenze in strada. “Nonostante il coprifuoco militare, si aveva voglia di fare tutto ciò che era impossibile, di vedere persone”, ha affermato. “E adesso si vuole fare esattamente l’opposto”.
Mariam ha dichiarato che il suo approccio per affrontare l’isolamento si basa su quanto ha appreso da piccola. “Bisogna trovare modi innovativi per festeggiare, essere in lutto ed essere arrabbiati”. I compleanni devono essere sempre festeggiati. “Continuavamo a dare attenzione ad altri aspetti delle nostre vite, invece di concentrarci sul disastro di fronte a noi”.
El Salvador
Enrique Roldan sta aspettando la fine della pandemia a Riverside, in California. Ma, a volte, si ricorda della sua adolescenza a El Salvador, a metà degli anni ’70, quando si nascondeva sotto il suo letto per scappare ai reclutamenti da parte del governo e delle forze della guerriglia. È la paura dell’ignoto che accomuna le due esperienze. “Allora, era un proiettile in testa” dice Roldan. “Adesso, è il virus nei miei polmoni”.
Di quel periodo a El Salvador, Roldan ricorda di essere rimasto in isolamento con sua sorella e i suoi genitori per settimane, aspettando che le violenze si fermassero. Il loro bilocale era piccolo, quindi per distrarsi entrambi si concentrarono sugli studi: storia, geografia e chimica divennero l’unica finestra verso il mondo esterno.
Stavolta, Roldan trova conforto nella compagnia di sua moglie, della quale sta imparando sempre di più ogni giorno. Leggono l’uno all’altra, proprio come una volta faceva con sua sorella. La pandemia ha semplificato le loro priorità. “Questo è il lato positivo del Coronavirus”, ha dichiarato. “Ha unito la famiglia”. Nonostante ciò, conosce di prima mano la sofferenza che spesso invade questi momenti positivi.
Sud Sudan
Quando Angelina Nyajima Jial era una bambina, le bombe esplodevano così spesso che la sua famiglia aveva chiamato le esplosioni “colazione, pranzo e cena”.
Angelina è nata nel 1985 in quello che allora era il Sudan. All’età di due anni la sua famiglia scappò dalla guerra civile. Lei, sua madre e molti dei suoi fratelli si salvarono in un campo profughi di Kakuma, in Kenya. Il posto era sovraffollato da migliaia di altre persone dislocate a causa dello stesso brutale conflitto, che alla fine ha dato la possibilità alla parte meridionale del Paese di dichiarare l’indipendenza con il nome di Sud Sudan.
Nel caos della lunga guerra, la famiglia di Angelina si separò. Suo padre, un insegnante, morì qualche anno dopo, prima che riuscissero a ritrovarsi. Tuttavia la Jial ha dichiarato che sua madre, che trovava conforto nella sua fede cattolica, aveva instillato un senso di stabilità nei suoi figli, anche nei giorni in cui non sembrava che stessero davvero vivendo, ma lottando disperatamente per sopravvivere.
Sua madre la incoraggiava a credere nella promessa del domani, che poteva essere un giorno migliore. “Tutto questo passerà” ricorda le parole di sua madre. “Ed è vero, perché nonostante tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare, ne sono uscita più forte”.
Attualmente, il Sud Sudan sta emergendo da una più recente guerra civile e si sta confrontando con la minaccia del Coronavirus. Angelina, che vive a Juba, la capitale, ha affermato che la situazione “riporta indietro i brutti ricordi del vivere in un ambiente congestionato”. Milioni di sud-sudanesi sono dislocati, e anche coloro che vivono nelle aree urbane non hanno sempre l’elettricità o l’accesso a internet. Inoltre, le persone che condividono le tende nei campi non hanno la possibilità di distanziarsi gli uni dagli altri. Alcuni non hanno nemmeno dell’acqua per lavarsi le mani.
Nonostante ciò, Angelina ha sollecitato a fare qualsiasi tipo di cambiamento possibile, piccolo o grande, per cercare di controllare ciò che ci circonda e trovare la calma interiore, anche quando sembra che il mondo esterno stia per collassare. “Ciò che traumatizza le persone è il panico”, ha affermato. “Imparate a rilassarvi. Inspirate, espirate e sappiate che tutto questo passerà”.
Bosnia
Quando avvenne la prima esplosione a Sarajevo, nel 1992, Fedja Mehmedovic stava giocando a pallone: aveva 9 anni e non sapeva che tutto il suo mondo stava per ridursi a una stanzetta in cantina.
L’assedio di Sarajevo durò fino al 1996, costringendo intere famiglie a passare anni in isolamento. Ogni uscita per cercare acqua o cibo significava dover correre il rischio di essere colpiti da cecchini. Molte persone passarono lunghi periodi nei loro scantinati, vivendo insieme ai vicini. Questo isolamento si trasformò in un corso di perfezionamento in improvvisazione.
Sia gli adulti che i bambini dovevano essere in grado di fare piccoli miracoli gli uni per gli altri. I genitori di Fedja riuscirono misteriosamente a cucinare una torta per il primo compleanno di sua sorella, senza utilizzare i soliti metodi. Una biblioteca di fortuna e un negozio di fumetti permettevano ai bambini nelle loro case di giocare a turno a fare i bibliotecari, prestandosi libri gli uni con gli altri. Senza elettricità per la televisione, a Fedja mancava terribilmente il suo episodio settimanale delle Tartarughe Ninja, ma aveva risolto il problema utilizzando pupazzi e Lego.
Per i bambini, che si divertivano nella libertà del gioco, i disordini potevano sembrare addirittura più disorientanti che per gli adulti. “In un attimo, non hai più tutte queste cose” ha dichiarato Mehmedovic. “Non puoi andare a teatro, non puoi andare al museo, anche la scuola è colpita”. Un giorno, mentre Fedja era steso sul pavimento a sognare ad occhi aperti, una delle vicine di casa entrò chiedendogli cosa stesse facendo. “Sono al mare”, le rispose. Lei si unì a lui. Rimasero stesi insieme per circa 15 minuti, godendosi il suono delle onde e dei bambini che giocavano sulla spiaggia; la loro immaginazione era così forte da trasportarli entrambi lì. La sua vicina ricorda ancora quel momento come una delle esperienze più importanti della guerra.
Mentre i residenti di Sarajevo aderiscono all’isolamento per evitare la diffusione del Coronavirus, Fedja scorre i suoi ricordi. La crisi attuale non si avvicina ai disordini in tempo di guerra. Tuttavia, la resilienza che quell’esperienza gli ha insegnato lo sta aiutando ad affrontare la pandemia. “Mantenete le relazioni sociali anche se dovete tenervi a distanza” ha dichiarato. Aprite la finestra e parlate coi vicini. Ascoltate le loro storie. Considerate il tempo passato in casa come un’opportunità per imparare qualcosa di più sulle persone che vi circondano. E insegnate ai bambini a guardare oltre la loro situazione attuale.
“Molti genitori hanno del tempo che i miei non avevano durante la guerra”, ha dichiarato. “Possono impiegarlo con creatività”.
Traduzione di Chiara Romano dal Washington Post