Il Primo maggio dei disabili
Questo mio Primo maggio è diverso da tutti gli altri, e non solo perché da ormai quasi due mesi sono costretto a stare in casa per la pandemia di Coronavirus che ha colpito l’Italia e il mondo intero. È diverso da tutti gli altri perché lo sto vivendo con una tremenda insofferenza, mentale e fisica.
Mentale perché, diciamocelo chiaro, la quarantena è dura, durissima, e devo ringraziare la mia famiglia, mia moglie e i miei due bambini in primis, per starmi così vicino in un periodo particolare come questo. Sì perché il virus ci sta permettendo di stare sempre insieme, e sono i loro sorrisi a darmi la forza di andare avanti, con la testa e con il corpo. Anche se il corpo dà segnali significativi: la mia malattia, la distrofia muscolare di Becker, è un po’ subdola, non ti lascia “respirare”.
Lo sto dicendo a chiunque da marzo mi chiede “Come stai?”: come sto… soffrivo prima anche solo per arrivare in ufficio la mattina con i mezzi pubblici (che qui a Roma meritano sempre un capitolo a parte), soffro ora stando tra le quattro mura della mia casa, perché i movimenti sono molti, molti di meno.
Spesso ci rido su, perché mi sento in qualche modo “fregato”: la patologia con la quale sono nato mi costringe a trovare perennemente un equilibrio psicofisico: non stare troppo seduto, non dormire troppe ore, non camminare troppo, etc. Però ho anche bisogno di riposarmi, rilassare la mente, per poter essere un padre presente per i miei figli, per portare a termine ogni compito affidatomi dal datore di lavoro, e così via.
Già, il lavoro: per fortuna l’agenzia di comunicazione con la quale lavoro da oltre 2 anni ha capito quello che stava succedendo e ha attivato lo smart working già da prima che i vari DPCM lo rendessero praticamente obbligatorio. Ma anche lì, altra fregatura: come dicevo poche righe su, stando in casa sto molto più fermo e ne risento.
C’è chi con grande affetto – parenti, amici, colleghi – mi ha detto “Ma tu puoi uscire, fatti due passi, mi raccomando, mascherina, che sei un soggetto a rischio”, ma sono così stanco da non farcela. Anche perché, com’è giusto che sia, va data una mano in casa.
Questa situazione rende tutto psicologicamente difficile, e in tutto questo posso ritenermi fortunato.
Sì, perché in un momento delicato come questo, nel quale l’Italia sta attraversando una delle crisi più gravi della sua storia, la questione lavoro assume un’importanza ancora più fondamentale, soprattutto per chi è una categoria protetta. Più volte infatti, nel corso degli anni, ho sentito frasi come “Per chi è disabile è più facile trovare lavoro” oppure “Avete a disposizione più offerte di lavoro di altri”.
Ebbene, non è così. Le aziende ancora oggi hanno timore di assumere una categoria protetta, nonostante gli sgravi fiscali alle quali sono soggette, nonostante si viva in una società dove tutti (tutti?) hanno diritti. La realtà dei fatti è che le imprese – e in passato è capitato anche a me di vivere delle situazioni non esattamente positive – credono che avere un disabile possa creare problemi, alla quotidianità del lavoro, ai colleghi, al fatturato.
Faccio parte del mondo del lavoro da ormai 15 anni, ho avuto diversi lavori, ho fatto tanti colloqui, e, specie con i riscontri negativi, non mi hai mai abbandonato l’idea che essere disabile avesse influito in qualche modo. La verità è che ogni persona, a modo suo, può e deve partecipare attivamente alla “vita” aziendale. Si tratta di professionalità, si tratta di dignità.
I padroni non considerano il lavoratore un uomo, lo considerano una macchina, un automa. Ma il lavoratore non è un attrezzo qualsiasi, non si affitta, non si vende. Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone.
Giuseppe Di Vittorio, sindacalista
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