Il Sudan vieta per legge le mutilazioni genitali femminili
Una nuova legge sudanese proibisce le mutilazioni genitali, una pratica a cui vengono sottoposte nel Paese 9 donne su 10. Ma, secondo alcuni, le sole norme non possono eliminare la terribile usanza
Il nuovo governo del Sudan ha bandito la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Gli attivisti dei diritti per le donne considerano la notizia una vittoria importante in un Paese dove questa pericolosa usanza è molto diffusa.
Secondo le Nazioni Unite, circa 9 donne sudanesi su 10 hanno subito la forma più invasiva di questa pratica, ossia la rimozione totale o parziale dei genitali femminili esterni. Ciò può portare a problemi di salute o sessuali che possono essere fatali. Ma adesso, chiunque in Sudan esegua mutilazioni genitali femminili rischia 3 anni in prigione e una multa in base a un emendamento al codice criminale del Paese. Il governo di transizione, salito al potere solamente l’anno passato, dopo l’espulsione del dittatore sudanese Omar Hassan al-Bashir, ha approvato la legge la settimana scorsa.
“È un passo enorme per il Sudan e il suo nuovo governo” ha dichiarato Nimco Ali della Five Foundation, una organizzazione che protesta a livello mondiale per la fine delle pratiche di mutilazione genitale. “L’Africa non può prosperare a meno che non si prenda cura delle sue ragazze e delle sue donne. Questo governo sta mostrando i denti”.
Legislation is the foundation upon which a civil and progressive Society is built on. And any legislation that strengthens the protect of the human rights of girls and women is an amazing one. #endFGM https://t.co/87rdwGYbLN
— Nimco Ali (OBE) 🪬 (@NimkoAli) May 1, 2020
Almeno 27 Paesi africani praticano le mutilazioni genitali, che avvengono altresì in alcune parti dell’Asia e del Medio Oriente. Oltre al Sudan e all’Egitto, questa usanza è diffusa prevalentemente in Etiopia, Kenya, Burkina Faso, Nigeria, Gibuti e Senegal, secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione.
“La legge aiuterà a proteggere le ragazze da questa pratica barbara e permetterà loro di vivere con dignità” ha dichiarato Salma Ismail, una portavoce dell’UNICEF a Khartum. “Inoltre, aiuterà le madri che non volevano mutilare le proprie figlie, ma che sentivano di non avere scelta, a dire ‘no’. Adesso ci saranno conseguenze”.
Tuttavia, gli esperti hanno avvisato che la sola legge non è sufficiente a porre fine alla pratica.
Infatti, in molti Paesi è intrecciata al credo religioso e culturale. In alcuni casi, la mutilazione è considerata un pilastro della tradizione e del matrimonio ed è sostenuta sia dalle donne che dagli uomini. “Non si tratta solo di approvare riforme legali” ha dichiarato Ismail. “C’è molto lavoro da fare per assicurare che la società lo accetti”.
Ad esempio, in Egitto la mutilazione genitale è stata vietata nel 2008. Inoltre, nel 2016, il governo modificò la legge per punire i dottori e i genitori che facilitavano la pratica. Chi esegue l’operazione rischia fino a 7 anni di carcere, che diventano 15 se si causa disabilità o morte. Nonostante ciò, le azioni penali sono rare e le operazioni continuano sommessamente. Il 70% delle donne egiziane tra i 15 e i 49 anni vengono mutilate, la maggior parte prima dei 12 anni, secondo le Nazioni Unite.
All’inizio del 2020, una dodicenne egiziana è morta nella sala operatoria di una clinica privata. Un dottore in pensione le stava mutilando i genitali senza usare nessun tipo di anestetico. A febbraio, le autorità hanno denunciato il medico e i genitori della bambina.
Negli ultimi anni, sono cresciute le campagne globali e locali per porre fine alla pratica.
Allo stesso tempo, alcune comunità hanno cominciato lentamente a ribellarsi alle mutilazioni genitali femminili, che spesso sono considerate un rito di passaggio in gruppi di diverso credo. In alcuni luoghi, gli attivisti hanno proposto delle cerimonie di iniziazione alternative. Uno di questi programmi, attuato tra i Masai del Kenya, che hanno bandito la pratica dal 2011, avrebbe salvato almeno 15.000 ragazze.
Molte donne sudanesi vengono sottoposte a ciò che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama “circoncisione di tipo III”. Si tratta di una forma estrema della mutilazione genitale, che prevede la rimozione delle labbra esterne e, di solito, del clitoride. La ferita viene poi ricucita con un metodo chiamato reinfibulazione, che può causare cisti, prevenire gli orgasmi e causare dolore durante il sesso.
https://twitter.com/28TooMany/status/1256863585889902592
A causa della severa quarantena imposta per prevenire la diffusione del coronavirus, a molti sudanesi deve ancora arrivare notizia della proibizione della pratica. “La tempistica è stata sfortunata”, ha spiegato la Ismail, funzionaria delle Nazioni Unite. “Sono tutti preoccupati per il Covid-19” ha aggiunto. Nonostante ciò, l’atteggiamento stava già cambiando. Sei dei 18 Stati del Sudan hanno approvato leggi per limitare o bandire le mutilazioni genitali femminili già nel 2008. Tuttavia, le misure erano state applicate con scarso successo e non c’erano state azioni legali, secondo un resoconto di 28 Too Many, un gruppo attivista.
Nel 2016, al-Bashir, leader del Paese da ormai 30 anni, aveva provato a introdurre una legge nazionale per bandire questa usanza, ma i religiosi conservativi avevano respinto il tentativo. L’attuale governo di transizione, formato da leader militari e civili che guideranno il Sudan alle elezioni nel 2022, hanno aggirato quell’ostacolo. Il ministro per gli Affari Religiosi, Nasr al-Din Mufreh, di recente ha partecipato a una cerimonia per la Giornata internazionale della tolleranza zero per le mutilazioni genitali femminili. “Tempi, luoghi, storia e scienza mostrano che questa pratica è datata” ha dichiarato, aggiungendo che non ha giustificazioni neanche nell’Islam. Il ministro supporta l’obiettivo degli attivisti, che vorrebbero eliminare la mutilazione dal Sudan entro il 2030.
Traduzione di Chiara Romano da nytimes.com
Immagine di copertina via twitter.com/ayomibenedicto