Il caso George Floyd: non si può più nascondere il razzismo sotto il tappeto

Tempo di lettura 5 minuti
Il poliziotto bianco Derek Chauvin ha immobilizzato George Floyd a terra, sull’asfalto, con un ginocchio sul collo, nonostante l’uomo urlasse di non riuscire a respirare. George urlava. Chiamava la madre. Gridava perché non riusciva a respirare. Urlava per la sua vita

I can’t breathe” – “Non riesco a respirare”. Quelle che potrebbero essere state le ultime parole di George Floyd fanno capire perfettamente come moltissimi statunitensi di colore si siano sentiti guardando il lento video del suo omicidio.

Un’altra persona di colore morta. La ripresa di un’altra scomparsa atroce, stavolta con una folla di testimoni che richiedeva controllo e pregava gli agenti di onorare il loro giuramento e salvare la vita dell’uomo.

Un’altra famiglia in lutto. Un altro hashtag. Non c’è da meravigliarsi se non riusciamo a respirare.

Per molti di quelli che hanno visto il video dell’accaduto, le urla di George riprendevano quelle di Eric Garner, che gridava “Non riesco a respirare”. Un poliziotto di New York, Daniel Pantaleo, aveva ucciso Garner un paio di settimane prima che un agente di Ferguson uccidesse Michael Brown.

Le preghiere di George hanno ricordato un altro uomo di colore colpito a morte dalla polizia: Eric Harris. Nel 2015, l’agente di riserva Robert Bates disse ad Harris “Me ne frego del tuo respiro”. Quello stesso anno, le forze dell’ordine di Fairfax avevano usato per quattro volte il taser contro Natasha McKenna, mentre la donna cercava aiuto durante un crisi psicologica. Mentre si accanivano su di lei, diceva “Mi avevate promesso che non mi avreste uccisa”.

L’immagine del poliziotto bianco inginocchiato sul collo di George ricorda anche Freddie Gray. Un agente di Baltimora gli aveva spezzato la schiena durante un viaggio nel retro di un furgoncino della polizia.

Ahmaud Arbery, colpevole di fare jogging con la pelle nera; Breonna Taylor, colpevole di dormire con la pelle nera; e più recentemente, George Floyd, colpevole di aver incontrato la polizia, con la pelle nera. Questa miriade di casi ha fatto ragionare tutti gli americani su due realtà inevitabili. La nostra società e le sue istituzioni danno un valore pericolosamente basso alle vite delle persone di colore, ed è quindi intrinsecamente pericoloso essere neri negli Stati Uniti.

La vita di George era così inutile non per uno, ma per quattro poliziotti, nonostante una folla di testimoni stesse guardando e supplicando per lui. Ciò mostra il rischio, giornaliero e sproporzionato, che tutti i neri devono correre solo per il colore della loro pelle.

Se non fosse per le prove filmate, queste morti sarebbero state nascoste sotto il tappeto.

Le storie sarebbero state distorte. La colpa sarebbe stata data alle vittime. E la giustizia si sarebbe eclissata. Ma non possiamo toglierci dalla testa gli otto minuti del ginocchio di quel poliziotto premuto sul collo di George che porta alla sua lenta e straziante morte. Guardiamo George steso impotente sull’asfalto, che chiama sua madre. E immaginiamo di essere noi, i nostri fratelli o sorelle, figli o figlie al suo posto.

E poi c’è quel pensiero petulante, che continua a tornare e ci chiede di affrontarlo: quante altre morti non sono state filmate? Da quanto va avanti questa situazione, senza testimoni o documentazioni? È l’eccezione o la regola? E comincia a sembrare un genocidio.

Licenziare repentinamente i poliziotti che hanno ucciso o hanno assistito alla morte di George è un inizio. Perseguirli per legge è meglio. Modificare la cultura poliziesca che ha reso possibile questo episodio è ancora meglio.

Il dolore e la rabbia hanno spinto centinaia di persone a scendere in strada per protestare a Minneapolis, questa settimana. La famiglia di George ha chiesto che le dimostrazioni fossero pacifiche e che si rispettasse il distanziamento sociale. Non possiamo scendere allo stesso livello dei nostri oppressori, e non possiamo metterci in pericolo gli uni con gli altri, anche se sentiamo la necessità di far sentire la nostra voce all’unisono e con indignazione.

Ma i leader della città devono capire che il dolore della comunità per l’orrenda morte di George richiede più che la condanna e l’azione sul personale. La città deve riconoscerlo. Un agente può agire in maniera disonesta. Ma che tre altri poliziotti stiano a guardare un esecuzione senza fare nulla è il segno di un problema più profondo.

Per alleviare questa morte e dare inizio al processo di ripresa della comunità, i leader della città e della polizia devono osservare la cultura che hanno creato e porsi l’ardua domanda. Com’è possibile che le nostre assunzioni, i nostri valori, il nostro addestramento, le nostre politiche e le nostre procedure abbiano fallito collettivamente, tanto che quattro agenti hanno inflitto o accettato una fatale violazione dei diritti civili? Perché nessuno ha fatto nulla, nonostante le preghiere di salvare George Floyd? Dov’era l’umanità? Dov’era l’etica del proteggere e servire?

Il dipartimento di polizia di Minneapolis aveva già ricevuto almeno sette rimostranze contro Derek Chauvin, il poliziotto che ha premuto il suo ginocchio sul collo di George, ma aveva chiuso i casi senza nessuna azione disciplinare. L’uomo era coinvolto in diverse sparatorie fatali che gli avevano fatto guadagnare un posto su un resoconto del Communities United Against Police Brutality chiamato “Vite rubate in Minnesota: persone che hanno perso la loro vita a seguito di incontri con le autorità delle forze dell’ordine”. La città deve riesaminare quelle rimostranze e quegli incidenti e vedere cosa avrebbe potuto capire del carattere di questo agente se solo avesse guardato. E deve cominciare a stanare tutti quelli con un distintivo che hanno tendenze alla brutalità, al razzismo, all’abuso di potere o all’uso eccessivo della forza.

C’è qualcosa che non va in Minnesota, terra di alcune delle peggiori disparità razziali d’America. Ci sono chiari divari nei settori dell’istruzione, delle proprietà immobiliari, del lavoro, dei salari, della salute, della mortalità infantile e dei tassi di incarcerazione. A Minneapolis, una città dove il 63% della popolazione è bianca, il 63% delle persone colpite a morte dalla polizia tra il 2000 e il 2018 erano di colore.

Questo è un momento di profonda riflessione e cambiamento radicale.

Quali atteggiamenti in particolare mettono a rischio gli americani di colore? Quanto valore diamo, davvero, alle vite dei neri quando guardiamo effettivamente le prove?  E cosa possiamo fare per correggere la rotta?

È un momento in cui tutti gli americani devono guardarsi negli occhi, allo specchio, cambiare se stessi e chiedere un cambiamento da parte delle loro istituzioni. Solo allora saremo in grado di respirare di nuovo.

 

Traduzione di Chiara Romano da washingtonpost.com, theguardian.com, startribune.com

Immagine di copertina via medium.com

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