La scuola sui binari: una bella storia trattata male
Ispirato a fatti reali, un romanzo in cui errori grossolani rovinano l’esperienza di lettura
La scuola sui binari narra una storia che con molta facilità avrebbe potuto conquistarmi. E il nocciolo della narrazione in fondo lo fa. Ma quel nucleo così affascinante è costellato di tali errori grossolani che la delusione è cocente.
Ma andiamo con ordine.
Siamo in Messico. La storia si snoda intorno al caso della scuola Artículo 123 Maninalli Tenepatl. Si tratta di una scuola, l’ultima nel suo genere, che venne istituita a corredo della Legge del lavoro degli anni Trenta e allora vigente per garantire l’istruzione ai figli degli operai della ferrovia. In un’epoca storica in cui si espandeva il sistema ferroviario e tanti operai erano impegnati a costruire i binari metro dopo metro, anche le famiglie degli operai viaggiavano di pari passo con l’avanzamento dei lavori.
Il treno conteneva sia i loro alloggi (una famiglia in ogni vagone) sia la scuola vagone che permetteva di raggiungere anche i figli delle tante famiglie che, sotto padrone o meno, lavoravano la terra in posti sperduti. In questo modo era possibile garantire il sacrosanto diritto all’istruzione a fasce della popolazione già vulnerabili sotto molti punti di vista.
La narrazione procede su due piani temporali diversi.
Un presente narrativo in cui sulla scrivania di Hugo Valenzuela, ispettore capo de la Direcciòn General de Educaciòn, arriva il fascicolo dell’ultima scuola vagone. Si tratta di decidere se chiudere o meno la scuola ora che il vecchio maestro deve andare in pensione.
L’altro piano narrativo riporta invece le vicende di 4 ragazzini tra gli 11 e i 14 anni attraverso l’io narrante di uno di loro, Ikal Machuca. Vicende che si collocano in un preciso momento del passato in cui la scuola vagone era funzionante.
Su quest’ultimo piano narrativo niente da eccepire, è la parte più coinvolgente di tutto il romanzo. Il lettore si affeziona a Chico, Tuerto, Valeria e Ikal seguendoli nelle loro scorribande e lungo i binari dove giocano camminando a braccia distese per mantenere l’equilibrio. Vengono accennate le condizioni di vita degli operai e dei campesinos e tratteggiato il sottile confine tra infanzia e età adulta, confine spesso varcato anzitempo in questi contesti.
Conosciamo don Ernesto, il maestro, uno di quei maestri che più che esercitare un mestiere vive una vocazione. Ama i suoi ragazzi, li conosce a uno ad uno e conosce le loro famiglie e i loro problemi. Si preoccupa se non vede un alunno in classe, non smette di pensarci o agire o essere disponibile anche ben oltre l’orario scolastico.
Tutta questa parte del romanzo è ricca di scene molto belle. Non è difficile immaginare questa storia trasformata in un film. Bella l’immagine del treno che non viaggia sempre, si ferma e diventa stanziale per alcuni mesi, ogni volta in un posto nuovo. Allora le donne rimettono fuori i fiori e cercano di dare ad un vagone le sembianze di una casa. I mariti regalano loro uccellini che le allietano cantando e che, nel momento in cui bisogna ripartire e muoversi verso la stazione successiva, vengono liberati: uno sciame di uccelli di diverse misure e colori segue in volo il treno fino a quando il treno non diventa troppo veloce per le loro ali.
O le lezioni alternative di don Ernesto che fa raccogliere ai suoi alunni insetti e animaletti per poi descriverne le caratteristiche e avere pretesti per insegnare loro ben altro. Come quando parla della bellissima farfalla Monarca che, come molti messicani, affronta un viaggio lungo e pericoloso per raggiungere il nord. O quando davanti a un girino ne parla come di una promessa e così ricorda ai bambini che anche loro sono una promessa e possono e devono credere in loro stessi e cercare di essere nella vita tutto ciò che si sentono di voler essere.
Le criticità di questo romanzo riguardano il piano narrativo in cui si muove l’ispettore capo Hugo Valenzuela cui è affidato il compito di decidere la chiusura della scuola.
Quello che non funziona è il progetto narrativo. Credo che la scrittrice non ne avesse uno o non l’abbia delineato a sufficienza prima di iniziare a scrivere. Mi lascia perplessa il fatto che anche in fase di editing nessuno abbia sottolineato l’incoerenza grossolana insita nell’intreccio.
Se ci fosse stata una progettazione narrativa, almeno per grandi linee, ovvero se la scrittrice avesse deciso sin dall’inizio come la storia narrata da Ikal e quella incentrata su Hugo Valenzuela si sarebbero dovute incontrare avrebbe costruito il personaggio di Hugo Valenzuela e il presente in cui si muove in maniera totalmente diversa.
Credo che tutti abbiano letto o visto almeno una volta nella vita un giallo. Nei gialli ben costruiti la soluzione lascia il lettore di stucco (il che di per sé è un bene, indovinare il finale dalle prime pagine è piuttosto noioso). Ma ripensando a ritroso alle vicende narrate ci si rende conto che tutti i tasselli si uniscono in maniera coerente l’uno all’altro rendendo quella soluzione verosimile. Ecco, non è quello che succede in questo romanzo. Non che questo romanzo sia un giallo ma l’evoluzione della trama nella parte finale del romanzo si sviluppa in maniera incoerente rispetto agli elementi che la precedono nel corso della narrazione.
Gli altri personaggi, Carolina, Rebeca, Limonez, sono poco definiti e quasi caricaturali (la segretaria fedele e quasi in pensione, la nuova collaboratrice giovane bella e con le gambe lunghe, il doppiogiochista vigliacco che in fondo non sa tenersi un’informazione riservata). Anche la scelta di una fulminea deriva amorosa tra Hugo e Rebeca è così inutile che quasi dà fastidio.
E poi l’errore più grossolano. Le vicende di Ikal ragazzino e dei suoi amici si collocano nel 1940. C’è tanto di lapide di Tomàs, il padre di Ikal, ripresa per ben due volte nel corso del romanzo a ricordarci che il 1940 è l’anno della morte di Tomàs quando, dopo quei mesi di avventure e amicizie e primi amori, Ikal deve lasciare il treno (un altro operaio sostituirà il padre e un’altra famiglia ha perciò diritto ad alloggiare nel vagone).
Tomàs è morto a 35 anni e Ikal, quando lo troviamo adulto nell’altro piano narrativo, ha 5 anni in più di quanti ne aveva il padre. Siamo dunque nel 1970, anno più anno meno.
Ebbene no! Perché sono passati più di 80 anni dalla Ley del Trabajador più volte richiamata e che si vuole abrogare, i manager in treno lavorano sui loro portatili e Hugo Valenzuela riceve persino un messaggio WhatsApp. È come se l’autrice avesse inizialmente scritto pensando alla sua contemporaneità per poi decidere di riannodare i fili facendo ricomparire nella storia Ikal che però a quel punto non può avere quarant’anni!
Questo errore grossolano purtroppo rovina l’esperienza di lettura e toglie forza ad una storia di cui i lettori avrebbero potuto innamorarsi.