Non è un paese solo per maschi
Sintesi di una questione linguistica ma soprattutto culturale sulla quale si è rinvigorito il dibattito. Perché la definizione del mondo in cui viviamo passa anche dalle parole che usiamo per descriverlo
In macchina spesso mia figlia mi chiede di ascoltare le fiabe. Sin da piccola l’abbiamo abituata all’ascolto (le leggiamo ad alta voce praticamente tutti i giorni) e le piattaforme audio come Deezer o Spotify sono venute in supporto di genitori e figli inserendo nel proprio catalogo anche fiabe e racconti. Ultimamente sono stati inseriti anche molti podcast di trasmissioni radio indirizzati ai più giovani.
Così, l’altro giorno, abbiamo sentito un podcast con storie che, riportava la sigla, erano “per bambini e ragazzi”. Per me era chiaro il riferimento all’età anagrafica più che al genere. Ma mia figlia mi ha fatto notare: “Mamma, queste storie sono solo per i maschi”.
Ne è nato il tentativo di spiegare ad una bambina di 5 anni le regole grammaticali italiane che prevedono il maschile sovraesteso. Le abbiamo precisato anche però che le cose, nel corso degli anni, sono culturalmente cambiate e adesso sarebbe più giusto, per esempio, dire “per bambini e bambine e per ragazzi e ragazze”. Giusto nel senso di inclusivo, partendo dal presupposto che la nostra famiglia lo vuole essere. Crediamo sia importante. E quindi giusto.
Mia figlia però si è sentita esclusa. E io ho ripensato ancora una volta a quanto sia importante l’utilizzo che delle parole facciamo.
Di recente, fortunatamente sempre più spesso, mi imbatto nelle “puntate” di un dibattito per me molto interessante.
Provo a fare una sintesi.
La questione è sia linguistica che culturale. Ho sempre sentito molto forte il legame tra cultura e lingua: se un concetto non appartiene ad una cultura difficilmente si troverà, in un rapporto pressoché speculare, un termine in grado di veicolare quel concetto nella lingua di quella cultura (più probabili, per esempio, prestiti da altre lingue la cui cultura ha inglobato già in precedenza quel concetto).
Estremizzo: se un popolo non ha mai visto il mare e non sa cosa sia, con ogni probabilità non avrà una parola per indicare il mare. Salvo poi inserirla nel suo vocabolario grazie a qualche straniero che del mare ha raccontato a quel popolo.
La questione culturale riguarda una società in cui esistono gruppi di individui che sono ancora lontani dalla parità in termini di diritti civili e anche di visibilità all’interno della società.
Ci sono le donne e ci sono anche tutte le categorie rappresentate dalle varie lettere della sigla LGBT+, categorie che qualcuno stenta ancora a riconoscere o ammettere ma che di fatto esistono. Ci troviamo quindi nell’ambito delle questioni di genere.
La questione linguistica sta nelle proposte di un’alternativa al maschile sovraesteso. Come possiamo rivolgerci a un gruppo di persone che comprende sia uomini sia donne sia persone che possono non riconoscersi in queste categorie binarie? La norma dell’italiano, come spiegavo a mia figlia, prevede che, anche in presenza di un solo maschio, si adotti il maschile sovraesteso.
L’esempio classico è quello di un gruppo di persone, fossero anche quindici o venti, in cui c’è un solo ragazzo o un solo uomo, mentre il resto dell’assemblea è composta da ragazze e/o donne: in questo caso la norma della lingua italiana prevede l’utilizzo di frasi tipo “Buongiorno signori”, “Ciao ragazzi”, ecc. Va da sé che oggi la cosa cominci a stridere perché quelle 14 o 19 ragazze hanno alzato la testa, magari storto il naso davanti a quell’epiteto e hanno messo in discussione l’appropriatezza di un “Ciao ragazzi”.
La questione non è una questione emersa solo in tempi recenti. Risalgono alla fine degli anni 80 le Raccomandazioni di Alma Sabatini la quale proponeva di utilizzare invece il femminile sovraesteso nei casi in cui ci fosse prevalenza femminile.
Come sappiamo, come parlanti della lingua sulla quale stiamo riflettendo, questa proposta non si è mai affermata.
La società si è trasformata e un utilizzo non aggiornato della lingua mancherà di rappresentare adeguatamente le donne e le persone non-binarie.
Probabilmente anche a voi sarà capitato se non di usare almeno di ricevere comunicazioni o leggere testi, magari sui social, in cui si utilizza l’asterisco (car* tutt*) o la chiocciolina (car@ tut@) o altri caratteri ad hoc proprio per superare l’utilizzo del maschile sovraesteso e la categorizzazioni di genere maschile/femminile e includere così non solo le donne ma anche tutta la comunità LGBT+.
Carə tuttə, il linguaggio inclusivo esiste. Perché non usarlo? Intervista a @vera_gheno https://t.co/K6cf4UOXM7 pic.twitter.com/ipf9vgQYLB
— The Submarine (@infosubmarine) August 3, 2020
Vale la pena a questo punto precisare che questo dibattito è salito agli onori della cronaca da quando se ne sta occupando Vera Gheno.
Lei è, tra le altre cose, una sociolinguista e delle interconnessioni tra lingua e società ne ha fatto il suo pane quotidiano. Oltre ad essere una professionista nel suo settore, ha indubbiamente il merito di essere molto comunicativa e di aver reso fruibili questioni legate alla lingua altrimenti chiuse dentro i libri, affrontate solo dagli studenti di linguistica e mero appannaggio della comunità accademica dentro le sue aule.
Succede che Vera Gheno pubblica anche dei libri. Tra questi Potere alle parole (Einaudi) e Femminili Singolari (EffeQu) In quest’ultimo testo a chi obiettava che l’asterisco (car* tutt*) ponesse un problema di pronuncia, la Gheno proponeva di introdurre, invece dell’asterisco (o delle altre soluzioni analoghe che presentano un problema di scarsa leggibilità), l’uso dello schwa, che almeno ha un suono. Si riagganciava così ad una proposta già portata avanti da alcuni anni da Italiano Inclusivo.
Lo schwa o scevà (nome italianizzato) è un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale.
Si tratta di un alfabeto che permette di rappresentare per iscritto tutti i suoni presenti in tutte le lingue. Il simbolo dello schwa è una piccola e rovesciata, ə. Il suo suono, come spiega la Gheno, “corrisponde al suono che si emette se non si deforma in alcun modo la bocca”. È un suono che si ritrova in alcuni dialetti meridionali (l’esempio classico è il nome della città di Napoli pronunciato dai napoletani stessi: /Nàpulə/).
Succede anche che gli editori di EffeQu traducendo il saggio Il contrario della solitudine di Marcia Tiburi, femminista brasiliana, poiché l’autrice usa una “forma terza” come todes (invece di todos e todas), decidono di rendere questa forma inedita con lo schwa: tuttə.
Ovviamente l’utilizzo della scevà, anche grazie all’attivismo della Gheno disponibilissima a parlarne in tutte le occasioni in cui le è possibile, si è guadagnata i suoi detrattori. Online è possibile rintracciare numerosi articoli in merito, sia pro sia contro.
https://twitter.com/vera_gheno/status/1288432957351432193
Ora io non so se lo scevà si affermerà o meno, se verrà trovata un’ulteriore opzione applicabile in grado di regalarci un linguaggio inclusivo che non faccia sentire escluso nessuno, né una bambina di 5 anni né una persona adulta che non si riconosce in un sistema binario di genere.
Ovviamente l’utilizzo dell’asterisco o della chiocciolina o dello stesso scevà non può essere imposto né calare dall’alto. E, preciso per chiarezza, non credo che la Gheno cerchi di imporre nulla. Credo piuttosto che si stia facendo veicolo di un’istanza che di per sé già esiste nella società. E per la quale propone soluzioni nell’ambito del settore, quello linguistico, in cui ha gli strumenti e la preparazione per farlo. A lei il merito di aver accesso qualche riflettore in più sulla questione.
Trovo interessante e anche saggio per la nostra società riflettere su questi aspetti.
E forse è opportuno precisare che le questioni di genere non sono le uniche questioni che dovrebbero spronarci ad un utilizzo attento della lingua a nostra disposizione. La cultura evolve e la lingua anche, le resistenze sono fisiologiche sia per i cambiamenti culturali sia per i cambiamenti linguistici. Eppure entrambi avvengono in un mutuo scambio e parallela trasformazione.
Però è anche vero che la definizione del mondo in cui viviamo (e in cui crescerà mia figlia) passa anche dalle parole che utilizziamo per descriverlo.
E se è vero che alla fine la lingua è determinata dall’uso che i suoi parlanti ne fanno, è auspicabile che i parlanti siano consapevoli delle implicazioni connesse con le loro scelte linguistiche.
Immagine di copertina via Pixabay