Etiopia, il conflitto sanguinoso del premio Nobel per la pace
Telecomunicazioni sospese, oppositori politici arrestati, civili uccisi e moltissimi sfollati: la pace, in Etiopia, sembra una chimera
“Ti puntano un’arma addosso e ti chiedono se fai parte dell’esercito del Tigray. Alla minima esitazione sei morto. Ti sparano e lasciano il tuo cadavere per strada”. Fuggendo, Gerdo Burhan ha perso i genitori e le due sorelle. “Ti picchiano, a volte fino ad ammazzarti. O ti portano in un posto sconosciuto da dove probabilmente non tornerai vivo”, ha continuato. A parlare, è solo una delle tante vittime che sta mietendo la crisi in Etiopia in questi giorni. Una guerra, però, che va avanti da anni.
Gli scontri nel Tigray (la cui popolazione costituisce il 6% della totalità del Paese etiope) sono iniziati il 4 novembre, quando il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha dato il via libera alle operazioni militari contro il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF), movimento principale nella parte settentrionale del Paese e ostile al governo centrale. Salito al potere nel 2018, vincitore del premio Nobel per la Pace l’anno successivo con il riconoscimento di aver affievolito le tensioni con l’Eritrea e aver avviato un processo di riforme e democratizzazione del Paese, Ahmed viene, in seguito, accusato di autoritarismo violento. Lo stesso dei suoi predecessori. Inizialmente, infatti, aveva annunciato un piano di riforme liberali economiche e politiche tali da far sembrare l’Etiopia prossima a essere democratica e pronta, quindi, a svoltare verso una nuova direzione, più dignitosa della precedente.
Poi, gli scontri etnici. La repubblica federale etiope, infatti, suddivisa in dieci regioni, conta circa 109 milioni di persone, molte etnie e altrettante lingue e religioni che faticano da sempre a coesistere a causa delle ostilità etniche, della povertà diffusa e di un ambiente sempre più avverso ai cambiamenti climatici che stanno affliggendo tutto il pianeta. Nonostante le riforme economiche, sociali, sanitarie e le maggiori aperture politiche, molti sono ancora gli esclusi. Tra insicurezza alimentare e criticità generate dalla siccità (alla base di elevati e diffusi livelli di malnutrizione ed epidemie), moltissimi sono gli sfollati. “Negli ultimi 100 anni nel Corno d’Africa non si è fatto altro che guerra, la gente non ce la fa più. Ogni volta che tenta di rialzarsi arriva una guerra, non è possibile”, ha dichiarato don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che vive in Italia e si occupa dei diritti dei profughi e dei rifugiati.
Gli scontri che hanno portato alla crisi che molti considerano alla base di una futura guerra civile hanno inizio con l’uccisione di Hachalu Hundessa, cantante e attivista di etnia Oromo (la stessa del Primo ministro) che ha aperto, dunque, una stagione di rivolte violente nello stato di Oromia. Tra gli arrestati, tantissimi sono i politici di opposizione. Se da un lato, dunque, i sostenitori di Ahmed lodano i suoi tentativi di superare le divisioni e di proporre un’identità etiope comune, dall’altra Amnesty International pubblica un report per dimostrare come le uccisioni, le torture e gli arresti non si siano mai fermati. Nel 2019, Ahmed sostituisce la coalizione a quattro partiti divisa su base etnica con il “Partito della prosperità” di orientamento nazionale; a seguito di ciò, il partito dei tigrini decide di non far parte del governo.
Ad aprile, Ahmed giustifica con la pandemia la volontà di rimandare le elezioni a data da destinarsi; il Tigrè, al contrario, sceglie di tenerle lo stesso ottenendo la vittoria del Tigray People’s Liberation Front in tutti i seggi del Parlamento regionale. Si tratta di uno dei partiti storici e dominanti fra il 1991 e il 2018; l’esclusione di quest’ultimo dal governo centrale ha generato scontri politici. Se, secondo Ahmed, infatti, si è trattato di elezioni illegali che rappresenterebbero il primo passo verso la secessione del Tigray, il TPLF, invece, crede che la guerra sia parte di un attacco incostituzionale ai diritti delle regioni. Le forze del Tigray, dunque, lamentano un coinvolgimento ingiusto in procedimenti giudiziari per corruzione.
Si rischia, dunque, concretamente una guerra civile. Entrambe le parti si accusano a vicenda di atrocità e di blocco agli accessi umanitari. Come confermato dal leader dei ribelli del Tigrè, i soldati dell’esercito federale sono stati attaccati dalle forze vicine al governo locale nella caserma principale di Macallè. Un bombardamento contro i civili negato dal governo centrale. Due, invece, sono i razzi lanciati dalle forze locali: l’uno ha colpito l’aeroporto di Gondar, nella regione di Amhara, come tentativo di internazionalizzazione del conflitto, l’altro è caduto nei pressi di Bahar Dar.
Il TPLF ritiene che le forze eritree abbiano superato il confine per sostenere il governo centrale dell’Etiopia. Un’accusa respinta prontamente dal governo eritreo nonostante la presenza di combattimenti lungo il confine e di soldati delle forze federali curati in ospedali eritrei, come dimostrato da alcune testimonianze raccolte da una giornalista di BBC.
“Ci sono molte incognite in questo conflitto perchè l’élite tigrina è riuscita per 30 anni a consolidare un ruolo da protagonista nella politica nazionale e gran parte degli ufficiali federali su cui si appoggia Abiy sono di origine tigrina”. Secondo il professore di Relazioni Internazionali Francesco Strazzari, inoltre, “la minoranza tigrina ha guidato per anni gli assetti del potere e quando si è vista mettere alla porta dal processo di liberalizzazione ha ingaggiato uno scontro sempre più aperto fino ad arrivare all’attacco del 4 novembre“. Uno scontro, quindi, anche frutto della lunga storia di risentimenti tra le diverse etnie.
Se il Sudan, con i suoi tanti rifugiati etiopi, non ha interesse a schierarsi con un gruppo da sempre suo alleato (secondo il Professore, infatti, Khartoum è improbabile appoggi le forze separatiste dal momento che si trova in una rete internazionale), l’Egitto non sembra pronto ad agire, mentre l’Etiopia “non ha inoltre mai fatto una scelta chiara investendo su più fronti”. Alla base dei motivi legati all’elevato tasso di migrazione, tra le tante motivazioni, c’è il servizio militare. Strazzari, a questo proposito, afferma che “se l’Eritrea dovesse decidere per un maggiore coinvolgimento nel conflitto allora chiamerà a combattere i suoi giovani che cercheranno di evitare la leva scappando in Sudan”.
Dear fellow Ethiopians, pic.twitter.com/3H9XXSiFM7
— Abiy Ahmed Ali 🇪🇹 (@AbiyAhmedAli) November 22, 2020
“(…) Il vostro viaggio di distruzione sta arrivando alla fine, e vi esortiamo ad arrendervi pacificamente entro le prossime 72 ore, riconoscendo che siete a un punto di non ritorno. Cogliete quest’ultima opportunità. Vi invitiamo ad astenervi da ulteriori massacri e distruzione di città e a salvarvi dall’essere condannati per sempre nei libri di storia”. Si tratta dell’ultimatum del primo ministro alle forze del Tigray: tre sono i giorni concessi per arrendersi.
Nonostante le interruzioni delle comunicazioni e la sospensione di Internet (l’autorità per le comunicazioni etiope, infatti, ha anche sospeso la licenza di trasmettere al corrispondente della Reuters poichè accusato di faziosità), sappiamo, grazie alle testimonianze dirette, al lavoro delle associazioni e delle organizzazioni non governative sul campo quanto tragica sia la situazione.
Secondo le dichiarazioni raccolte da Yakl, il movimento di opposizione alla dittatura eritrea, Asmara non solo ha offerto appoggi logistici alle truppe di Ahmed contro i nemici tigrini. Come affermato, infatti, da Desbele Mehari, uno dei responsabili di Yakl in Italia, i militari eritrei “combattono in Tigray nella zona a a sud del confine, inoltre negli ospedali di due città eritree, Senafè e Keren, sono ricoverati molti soldati etiopi ed eritrei”. I Paesi del Golfo che appoggiarono la pace tra Ahmed e l’eritreo Isaias Afewerki nel 2018, oggi hanno interesse a stabilizzare l’Etiopia per motivi economici e per controbilanciare la presenza dei turchi in Somalia, dove circa 15 mila soldati che Ahmed potrebbe ritirare sono, oggi, dislocati contro i jihadisti.
Amnesty International, infatti, ha ricevuto fotografie testimonianti la carneficina: molti sono i cadaveri lasciati in strada. Per il massacro a Mai Kadra, inoltre, le Nazioni Unite parlano di crimine di guerra. Qui, Takli Burhano racconta di essere stato arrestato e picchiato per ore. Quando sta per essere ucciso, uno dei soldati si avvicina al capo fermandolo: “è stato il mio professore”, ammetterà. Il fatto che sia ancora vivo è solo un caso. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha chiesto l’apertura di corridoi umanitari: “abbiamo chiesto il pieno rispetto del diritto internazionale umanitario, l’apertura di corridoi umanitari e tregue che potrebbero essere necessarie per la fornitura degli aiuti nelle aree di conflitto”, dichiarandosi, inoltre, preoccupato per le conseguenze umanitarie derivanti da ciò che sta accadendo.
“La gente dorme all’aperto, non vi sono tende, solo coperte. C’è un po’ di cibo, ma non vi sono docce e servizi igienici”, ha affermato, invece, Will Carter, responsabile del Consiglio Norvegese per i rifugiati in Sudan. I rifugiati etiopi scappati in questo Stato, dunque, sono già 36 mila circa. Le condizioni sanitarie e alimentari sono gravi: si tratta di campi improvvisati e pieni oltre il limite consentito perché si rispetti la dignità di ciascun essere umano lì presente. La Direttrice generale dell’Unicef, Henrietta Fore ha espresso le difficoltà riscontrate nel tentativo di raggiungere i circa 2,3 milioni di bambini che necessitano di assistenza umanitaria a causa della sospensione delle comunicazioni e delle restrizioni imposte agli spostamenti nel Trigrè. “A preoccuparci è il fatto che senza accesso all’assistenza umanitaria, un numero sempre crescente di bambini finisca in condizioni di malnutrizione acuta, a maggior ragione che ci sono risorse a disposizione solo fino a dicembre” e chiede l’autorizzazione a interventi urgenti delle organizzazioni umanitarie verso le comunità colpite. La malnutrizione, inoltre, è frutto della crisi che ha colpito il settore agricolo a seguito delle invasioni di locuste, provocandone un aumento, tra il 2019 e quest’anno, del 30%. Almeno 54 mila sono i bambini che vivono in campi profughi, mentre 36 mila gli sfollati interni. Già prima del conflitto, quindi, il territorio versava nelle condizioni tra le più critiche in assoluto.,
L’UNICEF esprime la necessità di tutelare le infrastrutture civili e i minorenni dal reclutamento, dal rischio di separazione dalle famiglie, dal loro coinvolgimento diretto nel conflitto armato, dalle violenze sessuali e da quelle basate sul genere.
Statement by UNICEF Executive Director Henrietta Fore
2.3 million children in Tigray region of Ethiopia need humanitarian assistance, as thousands flee across border into Sudanhttps://t.co/ng9PJpYskC
— UNICEF Sudan (@UNICEFSudan) November 19, 2020
Verso il Sudan, dunque, vi è una fuga di persone dalle dimensioni imprevedibilmente grandi e che, come dichiarato da UNHCR e ACNUR, dalle agenzie umanitarie e dalle autorità locali, non si era pronti ad accogliere. Mancano cure per le donne incinte, per i malati e per gli anziani tra massacri, bombardamenti e blocchi ai confini. Secondo wusnto sostiene Amnesty, ad esempio, probabilmente centinaia sono i civili massacrati a colpi di ascia e machete a Mai-Kadra la notte del 9 novembre. Migliaia sono i profughi arrivati nel campo di Um Rakuba riaperto d’urgenza a 80 chilometri dal confine con l’Etiopia e che già in passato aveva accolto etiopi in fuga dalla guerra. “Ho visto corpi smembrati dalle esplosioni, altri putrefatti, per terra, uccisi a coltellate”, ha ammesso Ganet Gazerdier, che ora vive in questo campo profughi.
Allargando lo sguardo e cercando anche radici storiche e geopolitiche in questo scontro sanguinoso, in un’intervista, Enzo Nucci, inviato della Rai e studioso delle dinamiche africane, ha rilasciato la seguente analisi: “(…) l’offensiva a cui stiamo assistendo in Etiopia, ho il sentore che fosse premeditata da tempo. (…) Lo scontro tra le parti nasce essenzialmente dal disconoscimento politico reciproco. Un mancato riconoscimento che è culminato negli scontri militari. I tigrini sono appena 6 milioni e mezzo e rappresentano dunque il 6% dell’intera popolazione etiope. Eppure sono sempre stati molto forti politicamente. La loro rappresentatività politica e istituzionale, di fatto, ha sempre superato di gran lunga la loro forza numerica. In Etiopia sono decine le etnie che compongono il tessuto umano e sociale del Paese. Eppure la minoranza etnica dei tigrini ha sempre dominato la scena politica nazionale”.
Il giornalista ha, inoltre, dichiarato che oggi l’Etiopia “vive anche su influsso del neocolonialismo. L’area è di interesse geopolitico per la sua posizione di controllo del Mar Rosso ed è una zona strategica per la nuova Via della Seta. Dunque, una zona interessante per la Cina, per la Turchia e il Qatar, per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi. Molti oggi invocano l’intervento di questi interlocutori terzi per fermare il conflitto. Un conflitto che se dovesse allargarsi, degenerare, sarebbe a proposito della diga, un ‘Vajont‘ dalle dimensioni inimmaginabili. Tra neo-colonialismo e vecchio colonialismo l’Africa è da sempre luogo di interesse e di mire espansionistiche”.
Non mancano gli appelli al dialogo e a una risoluzione pacifica del conflitto, per evitare la temuta “balcanizzazione dell’Etiopia” che porterebbe a un’instabilità di tutto il Corno d’Africa. Il primo ministro etiope si dice pronto a riaprire le porte ai cittadini fuggiti garantendo che i militari dell’esercito federale daranno protezione e sostegno umanitario. Chiede loro, insomma, di affidarsi a chi ne ha provocato la messa in fuga. Il Comitato Nobel ha chiesto, invece, ad Ahmed di evitare la guerra civile nel Paese. Saviano Abreu, portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), in un’intervista alla BBC, chiede il ripristino della libertà di movimento per gli operatori umanitari e i civili in fuga. I rifornimenti per i soccorsi di emergenza iniziano a scarseggiare.
Le conseguenze di un’ipotetica guerra civile in Etiopia, dunque, ricadrebbero anche in Somalia e in Egitto – già in un rapporto di contrasto con il paese guidato da Ahmed a causa della Grand Ethiopian Renaissance Dam costruita sul Nilo Blu.
Non va tralasciato, inoltre, che un conflitto interno avrebbe inevitabili ripercussioni sui civili, la cui morte e messa in fuga è inaccettabilmente taciuta e nei confronti dei quali nessuno deve arrogarsi il diritto di erigere indecenti muri, sempre illegittimi.
Immagine di copertina via twitter.com/DrHillairet